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       Negli ultimi anni della sua ricerca, Foucault si sofferma a lungo sulle pratiche della cura di sé, che egli legge, in un certo senso, come possibili forme di resistenza ad un potere che trova il suo principale campo di esercizio nella formazione della soggettività individuale. Per questo, tali forme di resistenza possono facilmente essere lette come pratiche individuali.

       A suo avviso, in che modo esse possono essere ricollegate a quelle forme di resistenza più collettive individuate da Foucault negli anni Settanta, come ad esempio quelle legate all’esperienza del G.I.P., cui Foucault stesso ha partecipato? E, più in generale, come può essere concepita, secondo lei, la relazione tra resistenze individuali e collettive?

M. de Beistegui: Se, in quegli anni, Foucault si concentra sulla cura e la condotta di sé, sull’estetica dell’esistenza nell’antichità, non è per un allontanamento dall’impegno politico, dalla resistenza puntuale, per un ripiego sulla sfera soggettiva, ma è proprio per situare il rapporto di sé a sé come posta in gioco politica e forse punto di partenza per un altro rapporto sociale. Non ci sono da un lato il rapporto a sé, la resistenza individuale, e dall’altro il rapporto agli altri e la resistenza collettiva. Proprio perché il modo di governamentalità del neoliberalismo è totale, penetra in ogni strato dell’esistenza e in ogni aspetto della vita, perché funziona con l’interiorizzazione ed il lavoro su di sé - un sé spronato e stimolato alla performance, al successo ed alla ricompensa - è da questo sé, forse, che occorre iniziare. Stando così le cose, bisogna spingersi oltre. Nessuno sa quale piega il pensiero di Foucault avrebbe preso, se la morte non lo avesse colto così giovane. Quello che conta, come lui stesso dice, è sapere quali linee seguire o creare nel suo solco, o anche al di fuori. Ora, mi sembra che questo possa voler dire le seguenti cose:

a. Nel quadro di un regime di potere che rimane quello della governamentalità e della biopolitica, porre la questione dell’economia politica nella prospettiva di un superamento del neoliberalismo. Due voci (e due vie) si sono imposte nel XX secolo, quelle di Marx e Keynes. Ma per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, nessuna della due sembra dare una risposta. Questo è il motivo per cui, nel mio lavoro, guardo al progetto di economia politica di Bataille e ai lavori di Deleuze e Guattari, che fanno del neoliberalismo una questione di desiderio più che di interessi di classe. È a questa questione del desiderio che, a mio parere, occorre applicarsi, strappandola all’interesse ed alla cosiddetta razionalità, alla sua potenza di equilibrio e di armonia. Il desiderio deve essere articolato, come facevano Deleuze e Guattari, all’inconsumabile e all’improduttivo, a quel che essi chiamavano il “corpo senza organi” o “corpo schizofrenico”, a quel che, seguendo Bataille, chiamerei la “sovranità” o il desiderio sovrano. Questo suppone tutto un rapporto a sé, al sapere, all’arte, al mondo ed alla terra che non si possono iscrivere nel regime di verità e di governamentalità neoliberale.

b. Resistere al “governo tramite l’individualizzazione”. Questo significa inventare nuove forme di soggettività, nuovi modi di condursi e di governare se stessi, nuove forme di concepire il soggetto politico. È qui che interviene la problematica della cura di sé, di una possibile auto-soggettivazione, di un’etica ed estetica dell’esistenza, compresa quella corporea, erotica ed afrodisiaca - inteso che si tratterà sempre di rapporti di potere. Ed è anche qui, a mio parere, che la questione del potere e delle resistenze si congiunge a quella del desiderio, di cui Foucault aveva tanto diffidato. Come considerare e costruire delle pratiche di sé che non siano appunto individuali, cioè ancorate al valore-individuo? Cosa possiamo essere, se non individui? Questo suppone la creazione di altri valori, di altri desideri, di altre pratiche. Ovunque nel mondo, oggi, in America Latina, in Europa, si alzano delle voci, si scrivono dei libri, o degli appelli (si veda il successo straordinario e sorprendente di Indignez-vous!) che sono come altrettante forme di resistenza alla soggettivazione tramite l’individualizzazione e al governo tramite il mercato, al capitale (genetico, intellettuale, erotico, etc.) come a quel che definisce l’essere dell’essere umano. C’è in Francia l’Appel des appels. In Inghilterra ci si mobilita contro la chiusura delle biblioteche pubbliche, delle scuole, degli ospedali; contro i tagli selvaggi ed ideologici dei finanziamenti, in particolare alle università, operati dal governo di coalizione (“UK Against the Cuts”); contro il sistema penale (“The Howard League for Penal Reform”), la privatizzazione della gestione delle foreste, e contro la Big Society stessa, idea forte di David Cameron, che non mira ad altro che ad annientare quel che resta di società in Gran Bretagna. Ovunque in Europa, ci si mobilita contro la politica europea dell’immigrazione, che sappiamo essersi fondata in questi ultimi anni sulla collaborazione delle dittature nord-africane oggi in pericolo, ma anche contro la mercificazione dell’università e del sapere (si veda il movimento “European University Struggle” lanciato da Toni Negri). Sento che alcuni settori della popolazione si dicono: “ne abbiamo abbastanza, si è andati troppo oltre!” Di recente, il governatore stesso della Banca di Inghilterra si stupiva del fatto che, visto quel che la crisi costa al paese - cioè la più grande perdita del potere di acquisto dagli anni Venti - la situazione in Inghilterra non sia ancora più tesa di così e gli Inglesi non siano ancora più in rivolta. Ma credo che il vento stia cambiando. Questo rifiuto, questa resistenza, non crede più negli intermediari politici classici, in particolare nei partiti, soprattutto in un paese come l’Inghilterra, in cui io vivo, in cui tre partiti si dividono il potere e concordando su quasi tutti i temi, una volta che sono stati eletti. Queste resistenze si organizzano diversamente, localmente, e si diffondono in rete (da questo punto di vista, il caso di Wikileaks è esemplare).

c. Resistere con il pensiero, ancora e sempre: considerare il pensiero, l’attività filosofica come resistenza. Questo significa sviluppare la filosofia come critica - critica genealogica (e non ideologica nel senso marxista o della Scuola di Francoforte) dell’economia politica, ma anche ed ancora, di tutte le pratiche disciplinari, oggi più sottili che mai, perché quasi completamente interiorizzate e convalidate grazie a un processo di identificazione; critica libidica, nel senso che evocavo prima; infine critica creatrice (e questi termini non si escludono l’uno con l’altro), di concetti così come di modi di vita. Questo significa anche definire il pensiero come ostacolo e resistenza alla stupidità - cioè a un discorso di potere che si dà come discorso di evidenza - anziché come ciò che si oppone all’errore e all’illusione. E tuttavia, al tempo stesso, bisogna affermare la filosofia come “politica” e “coraggio della verità”.

 > Leggi la risposta di Sandro Mezzadra

> Leggi la risposta di Judith Revel

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