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       Il giornalismo filosofico consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini foucaultiani, rendendo visibile ciò che non lo è)? Quanto è rilevante, al fine di produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità?

Wu Ming 1: Interpreto «un certo» come «precisamente l'effetto politico che il parlante vuole produrre», e allora dico: il fatto in sé di dire la verità non è garanzia di alcuna riuscita. Il mondo è pieno di parresiasti la cui voce non ci arriva. Molti parresiasti sono in cura presso centri di igiene mentale, altri sono in galera, altri sono chiamati «scemi del villaggio». No, nemmeno in questo mi convince una distinzione netta tra retorica e parresia: senza un saper dire la verità, la parresia si riduce a incoscienza. Il «parlar franco» diventa una scena da film di John Landis, come quando, in The Kentucky Fried Movie, un tizio si infila un casco da paracadutista, raggiunge un capannelo di afro-americani, urla a pieni polmoni: «NIGGERS !» e fugge inseguito dagli insultati. Su questo, vorrei parafrasare quel che dice Mario Tronti sul motto «Ribellarsi è giusto»: l'indicazione del «dire la verità» va nutrita di abilità oltre che di forza. Dire la verità , certo, ma: bisogna farlo bene, sapere farlo bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita [Cfr. M. Tronti, Politica e destino, Sossella, Roma 2006].

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       Qual è il rapporto tra giornalismo filosofico da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza? In Che cos’è l’Illuminismo? Foucault utilizza l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui « la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile ». Pensa che la pratica del giornalismo filosofico si inserisca in un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce?

Wu Ming 1: A rigore, ogni critica mira a produrre un cambiamento. Il contrario della critica è l'accettazione del dato, dello scenario che ci viene proposto, del co-esistere che ci viene chiesto di dare per scontato, senza cercare di smontarlo, o quantomeno di rintracciarne le linee di sutura, l'eterogeneo che è stato accostato per dare l'illusione dell'omogeneo. Non sono certo io il primo a far notare che, etimologicamente parlando, «critica» significa «separazione». In greco significa discernere, distinguere, dividere, e quindi: scegliere, selezionare, e quindi: decidere (altro verbo che, stavolta in latino, significa «tagliare», «mozzare»). La critica mette in crisi (infatti krisis è il sostantivo di krino) perché separa, e questa separazione è già un cambiamento, se non altro di prospettiva e di sguardo: per guardare più oggetti servono più movimenti che per vederne uno solo. Attenzione però, questa separazione è sempre anche un nuovo accostamento. Se dici che l'oggetto X non sta nell'insieme Y, stai già parlando di un altro insieme. Se, poniamo il caso, dico che Tizio non ha nulla a che fare con le persone oneste, sto anche arricchendo (e magari, grazie all'aggiunta, ri-connotando) l'insieme dei furfanti.

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        Ritiene che si possa parlare di militanza nel caso della pratica del giornalismo filosofico? Più precisamente, ci chiediamo se il giornalismo filosofico sia, in maniera costitutiva, anche una modalità di “engagement” politico o di resistenza. In secondo luogo, pensiamo che la posta in gioco principale consista nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed engagement individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo esplicitamente nel pensiero di Foucault: « Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale, e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data ». All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi pensa che, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti?

Wu Ming 1: Ora torniamo al nostro primo scambio, al modo in cui ho risposto alla prima domanda. Premetto che, per quanto mi riguarda, ogni espressione è «militante»: militia est vita hominis super terram. Ogni produzione discorsiva e testuale è potenzialmente conflitto, resistenza, politica. Certo, il lavoro teorico può ridursi a vaniloquio incomprensibile e incapace di incidere, per questo torna utile (anzi, è necessaria) la mappatura di quella zona di convergenza tra archivio e strada. Nel memorandum sul Nuovo Epico scrivevo che a farci tornare in quella zona è un «desiderio feroce». È il desiderio di tenere il culo in strada, anche mentre si “vola alto”. Può sembrare la quadratura del cerchio, e in effetti lo è. Siamo nel mondo tangibile, dove il cerchio esiste come oggetto solido, fatto di qualche materiale. Un cerchio di ferro, ad esempio. Per trasformarlo in quadrato, serve qualche colpo di martello ben assestato. Bisogna imparare a usare il martello. Giornalismo filosofico a colpi di martello. Lo aveva già detto Nietzsche, in fondo. Il problema è che non siamo gli unici a usare questo utensile, anzi! Altri soggetti, ben più potenti di noi, vogliono afferrare oggetti e imporre loro certe forme. I loro martelli sono più grossi dei nostri? Può darsi. Proprio per questo, perché per le strade c'è disparità di forze (e monopolio legale della violenza), vanno inventate, apprese, insegnate nuove arti marziali concettuali. Si dice che i calci volanti del Tae kwon do furono inventati affinché un appiedato potesse disarcionare un guerriero a cavallo. Si dice che il silat, arte marziale indonesiana che si combatte sopratutto a terra (inginocchiati, accovacciati, avvinghiati all'avversario), si sia evoluto in quel modo per annullare il vantaggio fornito all'avversario da una maggiore statura. Non so se sia vero, ma sono buoni esempi. Serve fare qualcosa del genere. E servono «alleanze tra locutori». È una guerra, uno non può combatterla da solo. Sogno un «giornalismo filosofico» che sappia frequentare i picchetti operai di questi giorni, le lotte contro le discariche, i sit-in anti-TAV, le intemerate dei pastori sardi incazzati. Sogno un baratto di parole e azioni, tra soggettività diverse, intorno ai fuochi che scaldano i presidi notturni.

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