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       Qual è il rapporto tra giornalismo filosofico da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza? In Che cos’è l’Illuminismo? Foucault utilizza l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui « la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile ». Pensa che la pratica del giornalismo filosofico si inserisca in un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce?

S. Chignola: Molte cose in merito credo di averle già dette più sopra, per cui sarò rapido. Un “ontologia critica di noi stessi” significa in Foucault due cose fondamentali. La prima, è che nulla del presente è necessario. Valori, verità, retoriche, pretesi universali storici sono tutti – come lo siamo noi – storicamente divenuti. Sono – siamo – il prodotto di rapporti di forza che sono stati decisi in un modo e che possono sempre essere invertiti. La seconda, che nella battaglia per la definizione dei rapporti di forza che intessono il nostro, come ogni, presente, siamo tutti presi. Che si voglia partecipare alla battaglia o meno. Praticare un’ontologia critica di noi stessi significa certo, in questa prospettiva, tracciare i limiti, disegnare ciò che siamo nel perimetro del presente al quale ap-parteniamo e del quale, quindi siamo una parte, ma significa anche, valutando come quel perimetro è stato tracciato, riattivare la somma di possibili che è stata scartata o elusa. Non c’è potere che non sia resistito, per Foucault. Non c’è linea di fuga che non si provi ad imbrigliare, per Deleuze. Vale la pena di ricordarlo: il primo prodotto dell’ontologia critica è valorizzare il dato che la libertà viene prima del potere, lo anticipa e ne eccede continuamente i meccanismi di cattura.

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       Ritiene che si possa parlare di militanza nel caso della pratica del giornalismo filosofico? Più precisamente, ci chiediamo se il giornalismo filosofico sia, in maniera costitutiva, anche una modalità di “engagement” politico o di resistenza. In secondo luogo, pensiamo che la posta in gioco principale consista nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed engagement individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo esplicitamente nel pensiero di Foucault: « Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale, e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data ». All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi pensa che, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti?

S. Chignola: Questa domanda eccede Foucault, io credo. Rinvia piuttosto all’etica individuale. E in particolare a quella particolare “etica della responsabilità” della quale – almeno per me – parla la Conferenza del 1918 di Max Weber Politik als Beruf. “Il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”, scrive il lucido disincanto di Weber. In un libro molto bello e recente, Violence et civilté, Étienne Balibar riprende e rovescia questa frase. Il rischio di perversione della rivolta – il suo sempre possibile degenerare in violenza, il suo sempre possibile ricostituirsi in potere – non è mai una ragione sufficiente per non rivoltarsi, scrive Balibar. Una sorta di ritrascrizione “par en bas” della formula di Max Weber. Bene, Balibar ci dà una nozione di giornalismo filosofico che mi interessa. Forse non è più possibile scrivere tragedie, egli sostiene. E del resto lo diceva già Hegel, in riferimento alla modernità. Eppure abbiamo ancora bisogno di una scrittura del tragico. Di una scrittura, cioè, che assuma la forma del reportage e che assuma a proprio referente quei “militanti dell’impossibile” che la catastrofe della violenza e della guerra affrontano nei molti luoghi di una topografia che traccia i luoghi concreti della politica contemporanea. Nei molti Sud del mondo e in quel suo supposto centro che viene ricolonizzato e rigerachizzato dalla precarizzazione della cittadinanza e dei diritti. Calare la filosofia nella forma del reportage e farle sostenere la frattura che la espone oltre il rassicurante limite che ne circoscrive gli ordini di discorso. Farle prendere posizione e non trattenerla ad un esercizio di sovrana comprensione di sorvolo sulle miserie e sui conflitti dell’umanità. Già questo, io credo, potrebbe rideclinare un’etica del lavoro intellettuale. Forse in grado di tenere assieme Foucault e Max Weber, etica della ricerca e demonico dell’azione.

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