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Intervista a Christian Laval su "L'Appel des appels"

© materiali foucaultiani

Tradotto dal francese da Daniele Lorenzini


Promosso a dicembre dello scorso anno da professionisti del mondo della cultura, della sanità, della ricerca, dell’informazione e della magistratura, l’Appel des appels si presenta, prima ancora che come una produzione editoriale corale o nelle vesti di una classica denuncia politica, come un esperimento per mettere in pratica nuove forme di resistenza e di governamentalità alternativa di fronte alla distruzione progressiva del settore pubblico da parte del governo Sarkozy. In proposito, abbiamo chiesto a Christian Laval, sociologo all’Università di Paris X e tra i principali promotori dell’iniziativa, di parlare del “carattere foucaultiano” che, a nostro avviso, emerge in questa esperienza di convergenza delle lotte sociali.


        mf : Prof. Laval, le ragioni per le quali abbiamo deciso di chiederle un’intervista a proposito di L’Appel des appels. L’insurrection des consciences (Fayard, Paris 2009) sono riconducibili in primo luogo al carattere foucaultiano che pensiamo di aver rintracciato in quest’opera collettiva. In effetti, si tratta di un progetto che assomiglia a una “chiamata alle armi”, redatto da lavoratori appartenenti a molteplici campi del mondo sociale e pubblico, che sono scesi in campo perché i rispettivi settori di competenza (educazione, sanità, giustizia, informazione, ricerca) risultano messi profondamente in questione dalle riforme che il governo francese sta progettando. La posta in gioco politica della vostra lotta, come affermate, si situa a livello del concetto stesso di “pubblico”, e attraversa l’intera costellazione di pratiche inerenti a tale concetto. Per riprendere le vostre parole, lo scopo di questa lotta, eterogenea sin dall’origine nelle sue componenti, è di « costituirsi in collettivo sociale allo scopo di resistere alla distruzione volontaria e sistematica di tutto ciò che tesse il legame sociale ». Prima domanda, dunque: come vi situate in rapporto alla prospettiva foucaultiana che mira a mettere l’accento su lotte puntuali e trasversali, e che tuttavia fanno parte di un medesimo orizzonte generale? In particolare, qual è (se esiste) l’apporto teorico-pratico che la “cassetta degli attrezzi” di Foucault vi ha fornito?

        Christian Laval : Mi sforzerò di rispondere alle vostre domande, ma tengo subito a precisare che parlerò a titolo personale e non a nome dell’Appel des appels. Avete perfettamente ragione a individuare nel movimento dell’Appel des appels (ADA), e nell’opera collettiva che ne sostiene le ragioni, ciò che potremmo chiamare un “filo” foucaultiano. Anche se non bisogna ignorare la vasta gamma degli altri riferimenti: Lacan non vi è meno presente di Bourdieu o Castoriadis, senza parlare dei riferimenti a Hannah Arendt o ad altri filosofi o scrittori come Albert Camus. L’ADA sembra far esplodere la logica delle esclusioni reciproche adottata dai pensatori del passato, segno senza dubbio che siamo entrati in una nuova fase delle relazioni tra movimento sociale e lavoro intellettuale. Questo “filo” foucaultiano non è connesso solo alla frequenza delle menzioni del nome stesso di Foucault, o alle citazioni esplicite che sono tratte dalle sue opere, ma ben più profondamente all’uso molto preciso, fatto da numerosi autori e animatori del movimento, di concetti foucaultiani. Penso per esempio all’importanza che dà all’opposizione tra legge e norma Roland Gori, uno dei principali animatori del movimento, o all’impiego di concetti come quelli di “razionalità” e “soggettivazione” da parte di Pierre Dardot, che ha scritto un articolo sulla “razionalità neoliberale” nel libro collettivo menzionato poco sopra. Ciò non significa che gli animatori dell’ADA siano “foucaultiani”, che tengano a promuovere o a difendere una teoria del potere, della sessualità, della lotta che sarebbe quella di Foucault. Ciò significa che Foucault, oggi, fornisce alcuni strumenti utili a comprendere la logica generale alla quale rispondono le politiche che stanno trasformando le istituzioni, lo Stato, i rapporti sociali, le soggettività. In questo senso, si può dire che la famosa immagine della “cassetta degli attrezzi” corrisponde piuttosto bene all’uso che il movimento fa delle analisi e dei concetti foucaultiani.

       mf : A suo avviso, quando e in che modo la resistenza a un certo regime di razionalità governamentale acquisisce la dimensione di una lotta politica, diventando una pratica collettiva? In altri termini, ciò che le stiamo chiedendo è se il “rifiuto di obbedire”, ovvero la pratica di disobbedienza in quanto tale, il dire “no” al potere governamentale, costituisca già una critica politicamente efficace per far fronte alla governamentalità neoliberale che voi denunciate. O se, al contrario, questo appello a costruire un legame tra le differenti forme di lotta “individuale” risponde piuttosto alla necessità di strutturare una dimensione del “comune”.

        C. Laval : Diversi animatori dell’ADA, in particolare Barbara Cassin, hanno evocato la figura di Bartleby e la sua celebre formula: I would prefer not to. È un modo per dire che ogni potere suscita le proprie forme di resistenza e di rifiuto. La questione, eminentemente foucaultiana, si pone in questi termini: se la razionalità neoliberale funziona più sulla norma che piega le pratiche dall’interno, che non sulla legge che ordina dall’alto e dall’esterno, se essa s’incarna in situazioni nelle quali si conducono le persone a fare delle cose senza necessariamente reclamare da loro alcun assenso esplicito o perfino cosciente, di quale natura potrà essere la resistenza e come si potrà organizzare? La logica della situazione si presenta come una sorta di “ordine delle cose” al quale non ci si può sottrarre, anonimo e analogo al “martello senza padrone” che non cessa di picchiarvi nel modo più regolare e più sordo. È questo martello delle cose, dei fatti e delle cifre che noi affrontiamo, questo battito sordo che assomiglia al suono avvolgente e opprimente che ha descritto così bene Christian Boltanski nella sua ultima installazione al Grand Palais.

L’importante, nel potere anonimo dei dispositivi manageriali, è ciò che avviene a livello delle pratiche. Anche la resistenza deve partire dalle pratiche, cioè dal piano stesso dell’efficacia della governamentalità neoliberale. La questione della resistenza si pone dunque in modo nuovo. Certo, bisogna ancora pronunciare dei discorsi critici, fare delle manifestazioni, scioperare. Ma quando siete stati inseriti in una situazione di concorrenza, sotto la pressione della prestazione, all’interno di dispositivi di valutazione o di autovalutazione, conviene agire anche a livello della propria pratica professionale, sulle relazioni sociali più elementari che intrattenete con i vostri colleghi e sulle vostre stesse reazioni e motivazioni. Vi è richiesto di agire su voi stessi, di porvi delle questioni di ordine etico, di domandarvi quello che state facendo nel quadro di ciò che vi obbligano a fare. La nuova oppressione è l’impresa universale, basata sul fatto che le costrizioni proprie al modello del mercato si stanno impiantando ovunque nell’ambito delle riforme dello Stato. Non c’è più riparo, né eterogeneità delle logiche.

Quale resistenza è possibile dinanzi all’universalizzazione concreta delle tecniche manageriali? Che cosa fare quando è stato messo in campo un dispositivo che spinge ad agire in una direzione che sappiamo essere moralmente ripugnante, e in più assolutamente distruttrice del mestiere, del suo senso, dei valori che porta con sé – e dunque, in fin dei conti, inefficace? Vediamo bene che il problema non è soltanto quello di denunciare un’ideologia perniciosa, delle riduzioni di effettivi o delle leggi liberticide, bensì quello di rifiutare di essere coinvolti in dispositivi e situazioni che ci obbligano ad andare contro gli altri e contro noi stessi, che si ritorcono contro di noi, come la valutazione. Il ruolo dell’Appel des appels, quindi, non è quello di essere un movimento di protesta come gli altri, non consiste soltanto nell’essere il “coordinamento dei coordinamenti” o la cassa di risonanza dei movimenti – anche se questo lavoro è indispensabile. Consiste piuttosto nell’indicare e analizzare le nuove “servitù”, le numerose forme di assoggettamento, e a pensare, a partire dalla base, nuovi modi di resistenza. E consiste nel fare tutto ciò in stretto rapporto con le forze del movimento sociale, in particolare con i sindacati. Perché si tratta ovviamente d’accelerare la presa di coscienza, da parte delle forze sociali e politiche costituite o in via di costituzione, delle nuove condizioni della lotta.

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