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2. Il tema dell’a-priori: pratiche discorsive, grammatica e oggettivazione

Paltrinieri e Tiisala incentrano i loro interventi sulla tematica del pre-concettuale o dell’a priori. Basandosi essenzialmente sulle considerazioni epistemologiche sviluppate da Wittgenstein nel Della Certezza, essi insistono sulla vicinanza tra l’analisi lì sviluppata del senso comune e l’idea foucaultiana di a priori storico, in quanto entrambe legate all’idea di una normatività immanente e contingente (p. 81)[1]. L’idea fondamentale che sta dietro alla tematica del pre-concettuale è infatti che Wittgenstein e Foucault condividano una concezione analoga delle pratiche discorsive regolate, l’esplicitazione delle quali, in rapporto alla formazione dei concetti scientifici, è ciò che sta al cuore del progetto archeologico foucaultiano secondo Tiisala (pp. 79-80). Né la logica, né la linguistica incontrano dunque il livello dell’indagine foucaultiana: le regolarità in esame sono piuttosto quelle che definiscono il dominio di «oggetti che possono essere oggetto di sapere all’interno di una data pratica discorsiva» (p. 81). L’a priori storico, secondo le parole di Foucault, è proprio questo insieme di «règles anonymes, historiques, toujours déterminées dans le temps et l’espace qui ont défini à une époque donnée, et pour une aire sociale, économique, géographique ou linguistique donnée, les conditions d’exercice de la fonction énonciative»[2]. Questo “anonimato uniforme”, questo assetto di regole che soggiace alla formazione storica di uno spazio concettuale all’interno del quale prendono forma tanto modalità di oggettivazione che di soggettivazione, è da Paltrinieri identificato con la grammatica di cui parla Wittgenstein. Il contributo rivoluzionario del filosofo austriaco è proprio quello di aver superato l’approccio astratto alla semantica, analizzando invece, attraverso i giochi linguistici, l’emergenza di concetti e proposizioni da operazioni concrete all’interno di pratiche discorsive.

Proprio in questo aspetto sta il limite principale della liaison con lo strutturalismo tematizzata da Bilba, secondo il quale sia la cosiddetta “svolta” wittgensteiniana degli anni ’30, sia la fase archeologica foucaultiana, rappresenterebbero delle concessioni alla linguistica saussuriana. Questo aggancio retrospettivo trova parziale giustificazione in una concezione non rappresentazionalista del linguaggio, in cui i segni sono definiti non in maniera indipendente ed assoluta, ma in termini relazionali e di sistema. D’altro canto, però, il discorso in Foucault rappresenta un ordine irriducibile tanto alla langue che alla parole di Saussure, la cui riflessione strutturale opera in più attraverso un sistema puramente astratto di categorizzazioni e differenze linguistiche. Inoltre, nonostante Wittgenstein sia maggiormente interessato a un’analisi sincronica o orizzontale di un sistema di legami concettuali, piuttosto che all’origine causale dei concetti, nella sua riflessione sembra trovare spazio anche una certa attenzione per la dimensione storica, assente invece nello strutturalismo[3]. Paltrinieri vede in Wittgenstein addirittura un «principio radicale di interpretazione storica del sistema di credenze», tale da giustificare la visione contingente della nostra forma di vita e della grammatica che la innerva (p. 55; cfr. anche Irrera, p. 192)[4].


3. Il tema etico: soggettivazione e filosofia come pratica

La strategia immanentistica messa in atto dai due filosofi è il riflesso di un’analisi di tipo relazionale e non sostanzialistica, che fa dell’appello al concetto di gioco come attività di tipo strategico, una descrizione della realtà – linguistica, storica e del potere – che prescinde da ogni tipo di riferimento a sostanze o essenze metafisiche. L’avversione dei due per la ricerca del nascosto, dell’essenza, è tematizzata infatti anche da Savoia (pp. 161, 180-182), il quale mostra come la tematica analogica sottenda in realtà anche le analisi declinate in senso politico, applicandosi con la stessa efficacia argomentativa anche al potere e alla sua riformulazione anti-marxiana da parte di Foucault.

Se gli interventi di Paltrinieri e Tiisala si concentrano sull’oggettivazione delle pratiche discorsive, Volbers, Savoia e Irrera mettono a fuoco le procedure di assoggettamento e soggettivazione. Savoia osserva come anche in Wittgenstein il soggetto non costituisca un atomo indipendente rispetto alle trame discorsive che lo investono: il concetto di gioco linguistico mostra come l’individuo (il parlante, in questo caso) divenga tale solo grazie all’educazione e all’apprendimento di un’attività normata che consente il suo inserimento all’interno di una comunità (pp. 174, 177, 181)[5].

A partire da questa critica del soggetto tradizionalmente inteso, si dipana il tema etico, che spinge Volbers a parlare addirittura della condivisione da parte dei due filosofi di una “concezione ascetica” della filosofia che, già dalla metafora della scala nel Tractatus, richiede una trasformazione del soggetto filosofante per l’accesso alla verità (pp. 164 ss.). Volbers identifica l’elemento principale di rottura dei due pensatori rispetto alla tradizione filosofica nel rimando di entrambi alla dimensione extra-discorsiva di una filosofia intesa come pratica, come lavoro su di sé[6]. Passa qui in secondo piano il ruolo della conoscenza e della storia, e la divergenza che Volbers individua tra i due riguarda piuttosto le finalità e gli obiettivi ultimi delle loro filosofie: Wittgenstein non intende rivoluzionare la filosofia, né assegnarle un ruolo guida nella trasformazione del reale; Foucault, all’opposto, considera la filosofia una forma specifica di problematizzazione della società e del presente. Questa opposizione tra una filosofia sostanzialmente rinunciataria, che mira alla propria dissolvenza, e un atteggiamento invece attivo e radicale, è criticata da Savoia, che mette allo stesso tempo in discussione l’ascrizione del pensatore austriaco alla cosiddetta “rivoluzione conservatrice”[7].


4. L’archeologo e la mosca

Abbiamo qui soltanto cercato di restituire alcune delle linee sulle quali gli intervenuti alla giornata di Parigi hanno iniziato a lavorare, aprendo una prospettiva tanto audace quanto proficua sulla storia della filosofia del secolo scorso. Operazione affatto scontata, perché se è vero che «una buona similitudine ravviva l’intelletto»[8], è vero anche che operazioni comparative di ampio raggio con filosofi così sfuggenti e complessi possono rivelarsi controproducenti, e rischiano di non aiutare la chiarificazione né dell’uno né dell’altro. Presupposto per un confronto tra individualità filosofiche è appunto la supposizione di tali individualità di partenza, per un loro avvicinamento. Ma, nel caso dei nostri, niente è così difficile come soddisfare questo requisito minimo, visto che i percorsi filosofici di Wittgenstein e Foucault sono stati ambedue spesso frammentati dagli interpreti in “fasi” diverse[9]. Consapevoli quindi che l’approccio comparativo può far guadagnare molto, ma anche far perdere un po’ della specificità delle rispettive problematiche, anche interpretative, che tutt’oggi dividono gli studiosi, si possono trarre dal volume Foucault, Wittgenstein alcune istruttive linee di lettura.

Ciò che il volume rappresenta è senza dubbio la prima manifestazione sistematica di un interesse per spunti derivanti dalla filosofia di Wittgenstein da parte di studiosi prevalentemente foucaultiani. Il titolo “Foucault, Wittgenstein” traccia un po’ il senso di lettura del rapporto, esprimendo la maggior parte degli interventi una sensibilità prevalentemente foucaultiana[10]. Nonostante ciò Foucault, Wittgenstein ha comunque il merito di illustrare, se non sempre con la dovuta profondità, almeno con buona ampiezza lo spettro delle possibili angolazioni per un raffronto tra due filosofi, a prima vista difficilmente avvicinabili.

Abbiamo cercato di mostrare alcune delle ragioni per ritenere che lo studio congiunto e approfondito di queste due figure filosofiche così imponenti possa risultare in una sintesi estremamente efficace, ben condensata da queste parole di Hacking:

Wittgenstein voleva insegnare alla mosca la strada per uscire dalla bottiglia. Ma la bottiglia in cui è stata imprigionata la mosca è stata creata dalla preistoria, e soltanto l’archeologia può mostrarne la forma[11].

Una sempre maggiore integrazione tra tecniche e orizzonti filosofici analitico-anglosassoni ed epistemologico-continentali è non solo possibile, ma anche auspicabile.



[1] Per il tema della contingenza delle norme, rimandiamo al volume di Pierre Macherey, Da Canguilhem a Foucault, la forza delle norme, ETS, Pisa 2011.

[2] M. Foucault, Archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, pp. 153-154.

[3] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §§ 23, 65, 67; Della Certezza, Einaudi, Torino 1999, §§ 65, 336.

[4] Anche Davidson (op. cit., p. 183) riprende da Pierre Hadot (cfr. “Philosophie et jeux de langage” [1960], ristampato in Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2007), la convinzione che la filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein sia di fatto aperta alla dimensione storica, come dimostra con la storicizzazione del concetto stesso di giochi linguistici.

[5] Nell’apprendimento del gioco linguistico, l’allievo diviene soggetto in quanto assoggettato al maestro (Irrera, pp. 195-196).

[6] Cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 43. Il coraggio come radice etica della verità è funzionale anche all’analisi di Savoia (pp. 170-171). Wittgenstein fa un appello costante al coraggio nei Diari segreti (Laterza, Roma-Bari 2001), mentre Foucault lo connette esplicitamente al tema della verità nel 1984, con il corso tenuto al Collège de France Le courage de la vérité. In questo senso, però, l’appello alla terapia wittgensteiniana (Irrera, p. 200) ci pare fuorviante, in quanto in Wittgenstein tale terapia si configura essenzialmente come attività di chiarificazione concettuale, ed è quindi difficilmente accostabile alle foucaultiane pratiche di sé.

[7] Sul tema segnaliamo il volume Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, che ha quantomeno il merito di affrontare in maniera globale la questione delle implicazioni etiche, politiche e sociali della filosofia di Wittgenstein. Sul tema della “rivoluzione conservatrice”, si veda J.C. Nyìri, “Wittgenstein’s Later Work in relation to Conservatism”, in B. McGuinnes, Wittgenstein and his times, Basil Blackwell, Oxford 1982, pp. 44-68. In questo articolo, il presunto anti-modernismo di Wittgenstein viene ricollegato a quello di pensatori conservatori quali Burke, Spengler, Mannheim e Oakeshott.

[8] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 18.

[9] Com’è noto, la tripartizione in fase archeologica, genealogica ed etica del pensiero foucaultiano si deve soprattutto alla sistematizzazione iniziata da Paul Rabinow in Ethics, Subjectivity and Truth, il primo volume di The Essential Works of Foucault, The New Press, New York 1997. È stata invece Danièle Moyal-Sharrock (The third Wittgenstein, Ashgate, 2004) a suggerire l’esistenza di un terzo Wittgenstein, quello del Della Certezza, irriducibile tanto a quello del Tractatus logico-philosophicus, quanto a quello delle Ricerche.

[10] I testi più “wittgensteiniani”, a nostro giudizio, sono quelli di Paltrinieri, Savoia e Irrera, che hanno una matrice comune proprio nell’apertura operata da Gargani verso la filosofia di Foucault attraverso tematiche, sempre sviluppate a partire da Wittgenstein, quali l’immanenza e l’autonomia del linguaggio, nonché la critica alla logica del doppio e al modello rappresentazionalista contro il quale far valere una concezione costruttivista della verità, idea per cui le «tecniche di verità producono la verità piuttosto che rifletterla» (Irrera, p. 195; cfr. anche Paltrinieri, pp. 50, 57).

[11] I. Hacking, “Leibniz e Descartes: dimostrazione e verità eterne” [1973], ristampato in Ontologia storica, cit., p. 275.

 
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