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       mf : Nell’ultimo capitolo del vostro libro, voi introducete la nozione di “democrazia radicale”, legandola all’idea che l’adesione di ogni cittadino alla propria società non sia né sarà mai compiuta – in altri termini, che il dissenso resti sempre possibile, o perfino necessario, in una democrazia. La questione cruciale in questo genere di regime è dunque quella della voce, dell’espressione: un governo è legittimo, infatti, solo se tutti vi trovano la loro voce. Così, come voi dite, il problema della democrazia coincide con quello di fare in modo che la mia voce privata sia sempre anche pubblica. In tale prospettiva, che ruolo è allora possibile assegnare all’intellettuale? Quale voce egli può rivendicare, nell’attuale conversazione democratica? E in che misura si può ancora sottoscrivere, oggi, alla critica dell’intellettuale “universale” di tipo sartriano (l’intellettuale « coscienza di tutti ») che Foucault ha condotto ne La fonction politique de l’intellectuel in nome di un intellettuale “specifico”, che lavora « in settori determinati, in punti precisi dove lo situano o la sua condizione professionale di lavoro, o la sua condizione di vita (l’alloggio, l’ospedale, l’asilo, il laboratorio, l’università, i rapporti familiari o sessuali) », e che si impegna dunque in una serie di « lotte reali, materiali, quotidiane »?

       S. Laugier, A. Ogien : In una società democratica, ciascuno costruisce la propria identità istaurando quotidianamente un rapporto fragile tra la propria soggettività e il collettivo, tra l’“io” e il “noi”. Il mio consenso alla società e al suo potere politico è allora costantemente in conversazione. Il mio ancoraggio nella comunità mi dà una “voce” che mi permette di parlare a nome degli altri, ma anche di rendere esplicito che non voglio più parlare per una società ingiusta o lasciarla parlare per me. Questo è il progetto di una democrazia radicale fondamentalmente differente da quella fondata sull’idea di un contratto costitutivo.

Tutto ciò si radica non soltanto nel perfezionismo morale, ma anche in Wittgenstein. Oggi è quasi provocatorio sollecitare Wittgenstein per un pensiero della radicalità, tanto la sua riflessione sul sociale, la forma di vita, è stata recuperata nel senso di un conservatorismo esplicito o implicito: da Alasdair MacIntyre, che in After Virtue[1] si fondava su Wittgenstein e sui suoi eredi britannici (come Elizabeth Anscombe) per il suo approccio tradizionalista della comunità, fino (talvolta) a Vincent Descombes.

Tutto ciò proviene da quella che è stata da molto tempo percepita come una dimensione antropologica nel pensiero di Wittgenstein – con la sua nozione di forma di vita, la sua riflessione sulla regola e sulla comunità di linguaggio. Ma al di là di un pensiero antropologico, o semplicemente “sociale”, bisogna esaminare la riflessione che egli sviluppa sul soggetto del linguaggio e l’autorità di tale soggetto, sugli altri e su lui stesso, così come sull’autorità che la sua società possiede nei suoi confronti. Insomma, si tratta di vedere in Wittgenstein non soltanto un pensiero del sociale e della forma di vita, ma anche un pensiero della voce individuale contro la voce comunitaria; contro il conformismo. Simile questione, com’è stato mostrato da Stanley Cavell in The Claim of Reason[2], è anche la questione della democrazia e della voce. Essa si pone allorché si tratta del linguaggio ordinario: da quale tipo di obbedienza deriva l’uso del linguaggio? Se rifiutiamo l’individualismo liberale e la mitologia della fondazione libera del soggetto in se stesso, non dobbiamo tuttavia farlo in favore di un conformismo del rispetto della regola che costituirebbe la sola concezione di un soggetto – quello, de-soggettivato, dell’agire conformemente alla regola. È per queste regioni che, com’è stato indicato da Philippe Corcuff a monte del nostro lavoro sulla disobbedienza, la voce soggettiva – in quanto espressione di un sé non assicurato – è una via per pensare, e radicalizzare, la democrazia.

La questione della voce è quella del noi, di cos’è questo noi. Come posso, io, sapere ciò che noi diciamo in questa o quest’altra circostanza? In cosa il linguaggio che parlo, ereditato dagli altri, è il mio? Ciò che è messo in causa, in Cavell, sono i nostri criteri, ovvero il nostro accordo comune sul, o piuttosto nel linguaggio, e più precisamente il noi che è in gioco in “ciò che noi diciamo”. Noi non ci accordiamo sui significati essenziali, ma sugli usi. E allora, qual è questo accordo? È tutto il problema di Cavell, ed è qui che la questione wittgensteiniana del linguaggio diviene una questione politica. Il problema è di sapere come collegare l’io al noi, senza sottomettere l’uno all’altro, che sia in nome di una mitologia del soggetto sicuro di sé, o in nome di una mitologia del rispetto conformistico e inevitabile della regola sociale istituita.

In Must We Mean What We Say?, Cavell – riprendendo Kant – definiva la razionalità del ricorso al linguaggio ordinario, sul modello del giudizio estetico, come rivendicazione di una “voce universale”: fondarmi su me stesso per dire ciò che noi diciamo. Questa rivendicazione è ciò che definisce l’accordo, e la comunità è dunque, per definizione, rivendicata e non fondatrice. Sono io – la mia voce – che reclamo la comunità, non l’inverso. Trovare la mia voce non significa trovare un accordo con tutti, ma effettuare una rivendicazione.

Possiamo così dire che in Cavell e Wittgenstein la comunità non può esistere se non nella sua costituzione attraverso la rivendicazione individuale e il riconoscimento di quella dell’altro. Non può quindi essere presupposta, e non avrebbe alcun senso risolvere il disaccordo morale o il conflitto politico ricorrendo a essa. Non si tratta di una soluzione al problema della moralità, quanto piuttosto di uno slittamento di questo problema, e del fondamento dell’accordo comunitario, verso la conoscenza e la rivendicazione di sé, e della propria voce. Sarà questo allora, in definitiva, il livello dell’ordinario.

Occorrerà dunque ripensare, nel contesto francese contemporaneo ove la capacità di espressione è interamente confiscata in nome della rivendicazione di un’espressione “vera” di tutti, il concetto di conversazione democratica: perché il governo sia legittimo, tutti devono avervi, o trovarvi la propria voce. Fare in modo che la mia voce privata sia pubblica: è il problema della democrazia, e la traduzione politica della “critica” wittgensteiniana del linguaggio privato. Il privato è il pubblico; l’interiore è l’esteriore, se riesco a trovare la mia voce in politica, a trovare l’espressione giusta. La critica del conformismo definisce allora la condizione della morale democratica ordinaria. Essa non concerne soltanto quelli che non parlano, quelli che per ragioni strutturali non possono parlare (quelli che sono stati “esclusi” dalla conversazione e in nome dei quali pretendiamo di parlare), ma quelli che potrebbero parlare e si scontrano invece con l’inadeguatezza della parola così com’è data loro, i politici stessi quando perdono la propria capacità di espressione, la propria individualità, per l’appunto.

L’ideale di una conversazione politica – della democrazia – non è quello della discussione razionale, o del consenso, ma quello di una circolazione della parola nella quale nessuno si trovi svantaggiato, senza voce. La rivendicazione e il dissenso non sono degli eccessi della democrazia, ma definiscono piuttosto la natura stessa di una vera conversazione democratica.

Si tratta di vedere in Wittgenstein, rileggendolo a partire da Foucault, non solo un pensiero del sociale e della forma di vita, facilmente rovesciabile in conservatorismo, ma anche un pensiero della voce individuale contro la voce comunitaria, contro il conformismo – per pensare, e radicalizzare, la democrazia.


[1] A. MacIntyre, After Virtue, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1981.

[2] S. Cavell, The Claim of Reason, Oxford University Press, New York 1979.

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