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       mf : Nel vostro libro, voi difendete una concezione “ordinaria” e “pluralista” del politico, concezione che ci pare molto vicina all’analisi foucaultiana del potere – per come essa è sviluppata, ad esempio, nel quarto capitolo de La volonté de savoir. In effetti, voi definite questa concezione “pluralista” attraverso tre proposizioni: 1) l’ordine del politico è diffuso; 2) la sua istituzionalizzazione si realizza in una moltitudine di forme che non si riducono a quelle riscontrabili nell’ambito dei suoi organi ufficiali; 3) l’azione collettiva di natura politica si presenta in modalità disperse. Di conseguenza, « l’ordine del politico non può essere considerato come se fosse completamente slegato dalla vita corrente dei membri di una società »; al contrario, « una concezione ordinaria del politico abita nei cittadini ». Vedete una relazione effettiva tra questa concezione ordinaria e pluralista del politico, e l’analisi foucaultiana del potere? E potreste spiegare più dettagliatamente come concepite il rapporto tra l’ordine del “politico” e l’ordine del “quotidiano” (del linguaggio e della vita degli individui)? Infine, a vostro avviso, quali sono i vantaggi teorici e pratici che derivano dallo sforzo di pensare il politico in questa forma ordinaria e pluralista, piuttosto che in forme più tradizionali (essenzialiste, assolutiste o istituzionali)?

       S. Laugier, A. Ogien : Esiste in effetti una certa affinità tra la concezione estensiva del politico che noi adottiamo e la posizione di Foucault sulla natura relazionale del potere. Ma c’è nello stesso tempo una grande differenza. La vostra domanda ci dà l’occasione di ritornare sulla distanza che separa queste due maniere di concepire il politico e di esplicitare la ragione per la quale noi non ricorriamo, come abbiamo già detto, alla nozione di governamentalità liberale, né facciamo riferimento a quella di biopolitica, anche se il tenore delle nostre analisi potrebbe portare a credere che dovremmo farlo. Perché non lo facciamo, dunque?

La prima differenza risiede nel fatto che l’orizzonte di lavoro di Foucault è la nozione di potere, mentre il nostro è quello che definisce la nozione di attività politica ordinaria. Nel primo caso, si suppone l’esistenza di un’alienazione (o la potenza d’imposizione di un’episteme) di fronte alla quale gli individui dovrebbero dotarsi degli strumenti per sbarazzarsene. Foucault concepisce questo potere in una maniera non assolutista, come afferma ne La volonté de savoir[1]: « L’analisi in termini di potere non deve postulare, come dati iniziali, la sovranità dello Stato, la forma della legge o l’unità globale di una dominazione, che ne sono solo le forme ultime » (p. 82). Per Foucault, parlare del potere non significa denunciare una dominazione esercitata da una classe dominante cosciente dei propri interessi e che utilizza la violenza per assicurarne la protezione. Significa piuttosto interessarsi alla « base mobile dei rapporti di forza che introducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sempre locali ed instabili. […] Il potere è dappertutto; non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove […] è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data » (pp. 82-83).

Foucault non concede al potere la capacità di assoggettare gli individui attraverso un insieme di istituzioni e di apparati che imporrebbero l’applicazione di leggi il cui unico oggetto sarebbe la riproduzione di un ordine stabilito. Sappiamo che lo sforzo di Foucault consiste nel sostituire l’idea di forza intrinseca della norma a quella di violenza vincolante della legge. Ne La volonté de savoir, egli precisa la propria posizione formulando cinque proposizioni: (1) il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide; (2) le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità, ma immanenti a tutte le questioni (politiche, giuridiche, economiche, morali, ecc.) che interessano una collettività; (3) il potere viene dal basso; (4) le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive; (5) la resistenza è consustanziale al potere e non è mai in posizione di esteriorità. Ciò che lo porta ad affermare: « Non c’è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto – anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali » (p. 85). Insomma, il metodo di Foucault si costruisce su questo postulato: « decifrare i meccanismi di potere a partire da una strategia immanente ai rapporti di forza » (p. 86). E questi rapporti di forza si giocano all’interno di un dispositivo che fornisce loro un quadro, come per esempio quello della sessualità.

La differenza tra il nostro sforzo e quello di Foucault consiste nel fatto che noi partiamo, invece, da un fenomeno: la disobbedienza civile, che noi consideriamo come una forma di azione politica in tutto e per tutto. Noi non postuliamo dunque né la riproduzione né l’alienazione, ma prendiamo atto del fatto che alcuni cittadini contestano la legittimità di una legge o di un testo regolamentare che si trovano obbligati ad applicare. In breve, è considerando la disobbedienza come criterio del politico che noi tracciamo i limiti del dominio del politico, piuttosto che fissarli a priori in modo teorico. In tal modo abbandoniamo la concezione ristretta del politico (quella degli esperti, dei sondaggisti, dei costituzionalisti, dei politologi o degli intellettuali), che lo confina a una serie d’istituzioni specializzate e al gioco di possesso e di conquista che si organizza secondo le regole di una democrazia rappresentativa. La nostra concezione dell’ordine del politico – che chiamiamo “ordinaria” – gli conferisce un’estensione maggiore. Essa riposa sulle analisi dell’antropologia e della sociologia politica anglosassone, che sono d’ispirazione pragmatista e adottano un punto di vista pluralista e aperto.

Se il nostro lavoro, come avete giustamente ricordato nella vostra domanda, condivide con quello di Foucault una certa aria di famiglia, è perché esso esprime una medesima sensibilità all’estrema labilità del mondo e alla vulnerabilità degli accordi che vi si concludono in modo provvisorio e non sempre esplicito. In altre parole, è perché i nostri due approcci ammettono entrambi, al di là delle loro differenze, il pluralismo e la dinamica costitutiva dell’azione. Ma se la concezione ordinaria del politico che noi difendiamo ci conduce ad adottare principi metodologici identici a quelli che Foucault utilizza nell’analisi delle relazioni di potere (che non sono in posizione di esteriorità, ma immanenti alle questioni politiche, giuridiche, economiche, morali, ecc. che si pongono ad una collettività; che nascono all’interno dell’attività ordinaria; che sono intenzionali e non soggettive; che sono consustanziali alla resistenza), noi applichiamo tuttavia questi principi non all’analisi del potere, ma a quella dell’attività politica, formulando l’ipotesi supplementare che tali principi facciano parte di ciò che chiamiamo il “savoir-faire politico” dei cittadini.


[1] M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 (trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978).

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