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Prospettive foucaultiane è una nuova rubrica che si propone di problematizzare, da un punto di vista foucaultiano, libri che non sono né di Foucault né su Foucault. Per tale ragione, i contributi e i forum su questi testi non costituiscono in nessun modo delle recensioni (che prendono in considerazione un libro nella sua integralità e non si preoccupano di attraversarlo necessariamente a partire da una prospettiva che può essergli anche abbastanza esterna). Si tratta piuttosto dello sforzo di creare una tensione critica tra il pensiero di Foucault e una serie di materiali che da esso differiscono sotto diversi aspetti. L’auspicio è che da questo incontro possano scaturire nuovi interrogativi in grado di interpellare tanto i libri qui commentati, quanto lo stesso pensiero foucaultiano.


Bruno Pepe Russo

La frontiera, la carta e l’immaginazione politica

A proposito di Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham 2013 (365 p.)


L’incessante dibattito sulla materialità della globalizzazione contemporanea, che negli ultimi decenni ha coinvolto ricercatori provenienti da molteplici ambiti disciplinari (l’antropologia, la filosofia politica, gli studi coloniali e post-coloniali) fa da background a Border as Method, or, the Multiplication of Labor (Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Duke University Press, Durham 2013).

Mezzadra e Neilson inquadrano criticamente una molteplicità di materiali del contemporaneo, interrogando in particolare alcuni foyers de problématisation comuni scorti, potremmo dire, nelle articolazioni disciplinari frontaliere che li costituiscono: la globalità come paradigma epistemologico, l’eccezione come imagerie destinata a cogliere le estremità, in particolare quelle violente, del contemporaneo, la cartografia delle trasformazioni del capitalismo e la sua eterogeneità, la questione della soggettività politica.

Tuttavia, lungi dal configurarsi come una verifica dei concetti, il testo procede fabbricando un prezioso tessuto di inchieste, capaci di scandagliare microfisicamente le figure del lavoro, così come i complessi dispositivi produttivi e governamentali globali nei quali siamo immersi.

In Qu’est-ce qu’une frontière ?[1], Étienne Balibar provava ad attaccare la presunta univocità della fenomenicità frontaliera, rimodulando la più generale riflessione sulla crisi dello Stato nazione su tre interrogazioni riguardanti rispettivamente: il modo in cui alcuni rapporti di forza surdeterminano le frontiere (è il caso del rapporto fra frontiere imperiali e frontiere all’interno dell’Europa colonizzatrice, e successivamente del rapporto fra universalizzazione dello Stato nazione e costituzione dei blocchi russo e americano); la polisemia della frontiera a partire dalla singolarità di chi la attraversa (l’aeroporto di Tel Aviv, con un passaporto giordano o israeliano) e quindi dalle forme di differenziazione che essa determina, marcando così un forte scarto teorico in direzione di ciò che c’è di positivo nelle frontiere, il fatto che esse servano ad includere ed individuare non meno che ad escludere; l’eterogeneità della frontiera, ossia l’analisi della pluralità delle forme in cui essa può territorializzarsi e fare effettivamente carta.

Trasformare le occasioni di sperimentazione teorica che la frontiera sembra offrire in un metodo è la proposizione principale di Mezzadra e Neilson.

Un primo punto di interesse matura proprio attorno al rapporto fra l’esperienza concettuale singolare delle situazioni analizzate, costruita tramite decentramento, fieldwork e inchiesta militante, e la globalità ricercata in sede teorica. Mezzadra e Neilson operano una prima fondamentale scelta epistemologica, che chiama direttamente in causa l’eredità del pensiero foucaultiano: scegliere la frontiera come metodo al fine di cogliere una molteplicità di figure concrete che non si identificano con alcun astratto, con una figura concettuale generale, sorta di ragione ultima del presente, sia essa neoliberale, globalizzata, fluida o eccezionalista. Al contrario, per i due autori si tratta di concatenare esperienze concettuali molteplici al fine di cartografare la materialità del contemporaneo, preferendo così alla trasformazione dei concetti foucaultiani in paradigmi (caratteristica, ad esempio, del trattamento agambeniano del concetto di dispositivo[2]), un’estensione del gesto foucaultiano, e cioè un’interrogazione sul paesaggio globale che muove dall’analisi dell’effettività locale, durativa, dei dispositivi e delle configurazioni discorsive, spaziali, temporali e tecniche che essi producono.

La critica della ragione eccezionalista, già oggetto del pregevole lavoro di Guareschi e Rahola [3], ci offre un buono spunto per addentrarci nelle poste in gioco filosofiche che il testo pone nel corso delle sue ricognizioni materialistiche.

La problematizzazione attorno all’eccezione ha goduto in questi anni di una posizione di rilievo nei luoghi di contatto fra scienze umane, scienze sociali e filosofia politica: il successo della trilogia di Agamben ha avuto, come accennato, anche l’ambizione di assumere all’interno di questo frame il portato teorico dell’analisi foucaultiana del potere e della sua effettività.

Tuttavia, il questionamento del paradigma eccezionalista si iscrive a mio parere in un movimento teorico più ampio. Ad essere oggetto di critica serrata è l’immagine di un mondo senza frontiere, quello profetizzato in ambienti sia critici che governamentali dopo la caduta del muro di Berlino, e quindi fondamentalmente omologo, univoco, “occidentale”, rispetto al quale due sole operazioni teoriche, complementari, sarebbero possibili: la descrizione della monofonia del mondo contemporaneo, dell’assoggettamento universale alle sue leggi, ai suoi discorsi, ai dispositivi d’integrazione e cattura di tutto ciò che gli sarebbe esteriore; il ricorso massivo all’imagerie eccezionalista per dare conto di ciò che, in virtù di forme di violenza estrema, ci informerebbe del contenuto di verità forcluso della condizione globale, o di ciò che a questa configurazione e ai suoi dispositivi sfuggirebbe – resistendo, e venendo confinato nel negativo, giacché si sottrae inoperosamente all’azione, o perché, come residuo, rifiuta l’integrazione e resta come lucciola da contemplare.

L’interrogazione sulla moltiplicazione delle frontiere e la riflessione epistemologica di Mezzadra e Neilson hanno certo il merito di rompere con la contraddizione materiale e quindi etica che si giocherebbe fra il dentro e il fuori, fra generalità della condizione (norma) ed eccezione, provando invece a spingere verso altre esperienze di immaginazione concettuale e politica. Questo movimento teorico ricalca singolarmente un momento centrale della filosofia di Foucault, e cioè l’abbandono di un’immagine trasgressiva del momento etico, in cui non si immagina più che «la seule manière de remettre en cause la clôture du système épistémique ou discursif soit un hypothétique dehors, une extériorité obtenue par le franchissement de la limite»[4]. Ne La volonté de savoir[5] sarà la libertà stessa, nella critica all’hypothèse répressive, a non poter essere più immaginata come una forza contenuta da un limite repressivo. Judith Revel indica in questo momento filosofico anche la perdita di capacità orbitale del linguaggio, il discorso che smette di essere principale oggetto della riflessione filosofica, in una congiuntura che vede così l’emergenza della problematica del potere.

Nel testo di Mezzadra e Neilson, la frontiera diventa metodo laddove non è solo barriera, limite che divide ed esclude, ma è invece problematizzata integrando le dimensioni spaziale, temporale (cap. 5, In the Space of Temporal Borders), e cioè materiale. Parallelamente, grande attenzione è portata alla positività delle dinamiche frontaliere, e quindi alle forme di inclusione differenziale, di intensificazione del lavoro, e soprattutto di produzione di soggettività.

Premessa chiave del lavoro di Mezzadra e Neilson è che lo Stato nazione non sia più luogo di concatenamento, di codage, di un insieme di rapporti e tecniche di potere differenti. Per questo, le forme di articolazione fra azione governamentale, decisione sovrana e spazi di esercizio della cittadinanza vanno lette a partire dalle singolarità degli assemblaggi di potere che si producono: «There is at once a disaggregation of powers that were once firmly lodged in the nation-state and a reconfiguration of them in specialized assemblages that mix technology, politics and actors in diverse and sometimes unstable ways» (p. 195)[6].

Il concetto di assemblaggio[7], che ritroviamo nel lavoro del 2005, diretto dagli antropologi Aihwa Ong e Stephen Collier, Global Assemblages. Technology, Politics, and Ethics as Anthropological Problems (Blackwell, Malden 2005) e, ovviamente, nel lavoro seminale di Saskia Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages (Princeton University Press, Princeton 2006), chiama in causa direttamente la riflessione di Foucault sull’ambiguità del potere.

In Les mailles du pouvoir, conferenza tenuta all’università di Bahia nel 1976 e direttamente citata da Mezzadra e Neilson, Foucault individua nei lavori di Pierre Clastres un tentativo che ritiene strategico riguardo alla comprensione teorica del funzionamento del potere, ovvero «essayer de s’émanciper du primat, de ce privilège de la règle et de la prohibition qui, au fond, avait régné sur l’ethnologie depuis Durkheim jusqu’à Lévi-Strauss»[8].

Foucault sta qui definendo il passaggio dal primato del potere localizzato in un centro (o in una cultura, laddove è intesa, à la Durkheim, come regola e norma che si oppone al tabù) ad una molteplicità di tecnologie e rapporti di potere, che ritrova prima di tutto nel Marx del Capitale, che indaga la disciplina dell’officina e il potere de facto, contro il Marx «rousseauisé» che avrebbe visto nello Stato e nella ragione giuridica i luoghi di emersione della volontà generale del popolo.

Questo non esclude, per Mezzadra e Neilson, la necessità di una genealogia della decisione sovrana e della sua empirica effettività nel paesaggio globale, e anzi invita a ragionare su una ricezione non cronologica delle tre forme di potere censite da Foucault, e cioè sovranità, disciplina e biopolitica, confermando così un assunto chiave della riflessione foucaultiana sul paesaggio coloniale e post-coloniale[9], insistendo sul nesso teorico, certamente fertile, fra impresa genealogica, temporalità molteplici e discontinuità, evento.

Lungi dall’apparire pacificato, il paesaggio globale ricostruito sul filo delle inchieste da Mezzadra e Neilson è denso di conflittualità, la più semplice delle positività da considerare essendo costituita dal fatto stesso di migrare, «entendant indiquer l’irréductibilité des mouvements migratoires contemporains aux “lois” de l’offre et de la demande qui gouvernent la division internationale du travail, et signifier que les pratiques et les demandes qui s’y expriment excèdent les “causes objectives” qui les déterminent»[10]. Come la molteplicità dei conflitti che osserviamo nel paesaggio globale possa aumentare la propria efficacia è sicuramente la domanda che articola la riflessione sulla soggettività politica e sul comune (cap. 9, Producing Subjects e cap. 10, Translating the Common). Negli ultimi due decenni, in filosofia politica, la riflessione attorno alla rottura, alla discontinuità, all’evento ha avuto il merito di porre con nettezza l’accento sulla singolarità di tutte quelle forme di soggettivazione che non articolano una domanda di worker-citizenship. Tuttavia, laddove la prossimità alle rotture è pensata come negazione di un consensus, di un ordine, l’analisi della produzione di soggettività resta confinata nella prigione dell’evento: «While capital labors under the illusion of translating everything into its language of value, living labor is continually crossed by discontinuities and differences» (p. 273). La riflessione sul rapporto fra universalismo, traduzione e comune che chiude il volume sembra iscriversi in un più generale invito ad indagare la dimensione complessa del capitalismo contemporaneo e ad assumerne l’eterogeneità come terreno privilegiato di sperimentazione pratica e teorica.



[1] Intervento al convegno Violence et droit d’asile en Europe : des frontières des états-nation à la responsabilité partagée dans un seul monde (Université de Genève, septembre 1993), poi riedito in É. Balibar, La crainte des masses. Politique et philosophie avant et après Marx, Galilée, Paris 1997.

[2] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006.

[3] M. Guareschi e F. Rahola, Chi decide? Critica della ragione eccezionalista, Ombre Corte, Verona 2011.

[4] J. Revel, Foucault. Une pensée du discontinu, Mille et une nuits, Paris 2010, p. 148.

[5] M. Foucault, Histoire de la sexualité 1. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976.

[6] Un panorama su questi assemblaggi è costituito dal capitolo 6, Zones, Corridors, and Postdevelopmental Geographies.

[7] A fianco dei due lavori citati, bisogna considerare che il termine assemblage traduce anche il francese agencement, centrale nell’opera di Deleuze e Guattari e in particolare riguardo ai rapporti fra società e politica. Mezzadra e Neilson, così come Sassen, affermano di non guardare troppo a questa filiazione, che tuttavia va tenuta in considerazione per la rilevanza che ha nel panorama accademico americano in social theory.

[8] M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits, 1954-1988, vol. IV, Gallimard, Paris 1994.

[9] A.L. Stoler, Race and the Education of Desire. Foucault’s History of Sexuality and the Order of Things, Duke University Press, Durham 1995.

[10] S. Mezzadra, Capitalisme, migrations et luttes sociales. Notes préliminaires pour une théorie de l’autonomie des migrations, in «Multitudes», n. 19 (2004), p. 18.

 
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