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Prospettive foucaultiane è una nuova rubrica che si propone di problematizzare, da un punto di vista foucaultiano, libri che non sono né di Foucault né su Foucault. Per tale ragione, i contributi e i forum su questi testi non costituiscono in nessun modo delle recensioni (che prendono in considerazione un libro nella sua integralità e non si preoccupano di attraversarlo necessariamente a partire da una prospettiva che può essergli anche abbastanza esterna). Si tratta piuttosto dello sforzo di creare una tensione critica tra il pensiero di Foucault e una serie di materiali che da esso differiscono sotto diversi aspetti. L’auspicio è che da questo incontro possano scaturire nuovi interrogativi in grado di interpellare tanto i libri qui commentati, quanto lo stesso pensiero foucaultiano.


Emanuele Clarizio

La politica del discorso: Foucault e Badiou

A proposito di Alain Badiou, L'avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma 2013 (200 p.)


Ogni tentativo retrospettivo di individuare un filo rosso, una comunanza di stile o una grammatica condivisa in un gruppo di pensatori altrimenti legati solo dalla geografia e dall’anagrafe desta solitamente – e spesso giustamente – sospetto fra gli addetti ai lavori. Ma per fortuna, contro qualche apparenza, non c’è alcuna volontà di sintesi nel volume che raccoglie i saggi di Alain Badiou, pubblicato recentemente in Italia da DeriveApprodi con il titolo L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta: non di “French Theory” si teorizza dunque in queste pagine, ma neppure solo di una congiuntura particolarmente ricca di idee, spesso peraltro diverse, della filosofia in Francia in un dato periodo. Richiamando la fortunata espressione di F. Worms[1], Badiou prova a fotografare un “momento” filosofico, con il quale si intende qualcosa di meno di una filosofia nazionale e qualcosa di più della coesistenza casuale di alcune opere o discorsi filosofici. Stupisce subito, tanto più in un “momento” come quello attuale in cui il ricorso a Foucault è imprescindibile per molti, proprio la sua assenza nel percorso qui tracciato. È vero che un capitoletto gli è dedicato nel Piccolo pantheon portatile[2], tuttavia si tratta di un brevissimo testo, scritto per rendergli omaggio in occasione della sua scomparsa, privo perciò della verve polemica che caratterizza il modo singolare che ha Badiou di confrontarsi con gli intellettuali che più gli sono vicini. Tanto più stupisce, questa assenza, se ci si accorge che, pur senza citarlo, Badiou riprende quasi letteralmente una distinzione con la quale Foucault prova a disegnare una ligne de partage nella storia della filosofia francese: nel suo articolo su Canguilhem[3], egli sostiene infatti che si possa reperire una differenza ben più fondamentale rispetto a quelle, epistemologicamente non discriminanti, fra marxisti e non, freudiani e non, e così via. Si tratta, a suo avviso, della linea che separa «una filosofia dell’esperienza, del senso, del soggetto e una filosofia del sapere, della razionalità e del concetto». Insomma: Bergson-Sartre contro Comte-Canguilhem. Badiou sembra invece non assumersi la responsabilità di una divisione così tranchant, affermando che l’opposizione vita/concetto è una figura dialettica della filosofia francese, che si risolve in quella del soggetto come questione fondamentale del periodo ’60-’90.

La proposta di Badiou, di solcare la propria collezione di saggi effettuando un viraggio sulla rotta già tracciata da Foucault, ci sembra un buon motivo per tentare la sfida di un confronto fra i due, a maggior ragione perché l’approdo – la questione del soggetto – è lo stesso per entrambi (almeno nominalmente; si tratterà poi di vedere che cosa tale nome designa). Diremo subito che la chiave interpretativa che Badiou mutua da Foucault non sembra, in verità, rendere giustizia alla specificità del proprio approccio. Se, pronunciata da Foucault, una simile distinzione colloca la linea di divisione a livello della postura teorica dei filosofi considerati (al punto che Merleau-Ponty o Bergson si ritrovano sulla sponda opposta rispetto a Canguilhem, cui tematicamente sarebbero prossimi), farne, come fa Badiou, una figura dialettica non serve a istituire alcun partage, ma giustamente, perché ciò che egli ritiene dirimente non è tanto il posizionamento teorico di un discorso, quanto il posizionamento politico cui esso dà luogo. Per questo, non ci sembra pregnante una distinzione basata su un criterio di natura epistemologica; a ben guardare, si direbbe che il punto a partire dal quale le filosofie di Foucault e Badiou divergono fino a risultare irriducibilmente incomunicabili risieda proprio nel modo in cui, rispettivamente, essi concepiscono l’effettività di un discorso: potremmo definirlo il problema di una politica del discorso, o, in termini classicamente foucaultiani, il problema del sapere-potere[4]. L’impressione generale che si ha leggendo i vari saggi è che Badiou si approcci a ogni discorso filosofico con un metro politico, con il quale misurare e valutare il potenziale rivoluzionario dei concetti messi in campo, se non addirittura la loro immediata fruibilità da parte di una prassi comunista. È questo gesto che riconosciamo insieme simile e lontanissimo da quello foucaultiano; simile perché – per usare questa volta una formula ben poco foucaultiana – entrambi non cercano di interpretare il mondo, ma di cambiarlo, lontanissimo nel modo di intendere questa politica del discorso. Laddove Badiou va alla ricerca di un’immediatezza politica dei concetti, Foucault analizza l’immediatezza politica dei loro effetti, di modo che vi è una differenza radicale nella maniera di concepire il rapporto fra sapere e potere. In questo senso, le loro posizioni appaiono talmente opposte da essere simmetriche: se, per Foucault, studiare la concretezza dei rapporti di potere, le tecnologie del sé, le istituzioni disciplinari, le forme della governamentalità occidentale, serve a istituire la reversibilità fra sapere e potere e a postulare la mancanza di soluzione di continuità fra la vita e i rapporti di potere, Badiou cerca, al contrario, un’aderenza fra concetto e prassi nella direzione inversa, conservando cioè un certo idealismo, o un certo ottimismo della ragione, che gli consentirebbe un margine di azione rispetto all’analitico pessimismo del nominalismo foucaultiano. Se, per Foucault, ad essere decisivo è il regime di veridizione all’interno del quale un enunciato fa la propria comparsa, di modo che la resistenza deve minarne alla base gli stessi presupposti, Badiou ha una concezione, per così dire, più irruenta della verità, legata all’evento del suo prodursi, pur senza ricadere per questo in un estetismo della rivolta. Sebbene irruento, l’evento è per lui sempre qualcosa di istituente, portatore di un significato “eterno”. Paradossalmente però, l’esigenza di tenere insieme il momento istituente e quello evenemenziale della politica lo conduce a una concezione dialettica della storia, all’interno della quale la discontinuità radicale è impensabile, contrariamente a quanto avviene in Foucault, per il quale il succedersi dei regimi di veridizione non è mai determinabile e nemmeno annunciabile da un evento singolare, ma è semmai la genealogia retrospettiva a poterne ripercorrere l’emergenza. Emblematico di questa distanza è il giudizio che Badiou, da fervente platonista, riserva al libro di B. Cassin su L’effetto sofistico[5], esecrando il pericoloso divorzio della politica dal Bene e dal Vero, tutto al contrario di quanto fa Foucault nel Corso del 1970-1971 ascrivendo ai sofisti il merito di aver pensato un paradigma della verità irriducibile a quello dell’adaequatio, ovvero la verità in quanto forza, e il discorso filosofico non come dimostrazione apofantica, ma come «manipolazione tendente a stabilire un rapporto di dominazione»[6]. Analogamente, mentre Badiou sostiene, nel saggio dedicato a Althusser, che «l’altro ideologico di Marx […] è l’economia classica di Smith e di Ricardo», è noto che Foucault, ne Le parole e le cose, prova ad individuare non l’altro ideologico, bensì l’altro epistemologico, rispetto al quale tutta l’economia politica si è costituita, trovandolo nell’analisi delle ricchezze. La posta in gioco di questo confronto è insomma tutta politica, poiché si tratta di scegliere di quali armi dotarsi, se quelle della critica o quelle della rivoluzione, e soprattutto contro quale regime scagliarsi, se quello di veridizione o quello «borghese, capitalista e imperialista». È singolare che, nonostante questa opposizione speculare, entrambi trovino la chiave di volta nella questione del soggetto, declinata ovviamente in forme completamente diverse. Foucault sembra approdarvi per una sorta di esigenza di lasciarsi alle spalle il piano meramente critico e provare a pensare il soggetto nella sua libertà e nella sua capacità autopoietica, rimanendo in ogni caso fedele al precetto di non elaborare una teoria del soggetto, esattamente al contrario, appunto, di quanto fa Badiou. Il soggetto di Foucault è pensato sempre nell’alveo di concrete condotte governamentali, laddove invece Badiou intende tracciare uno schema quasi trascendentale del soggetto, difendendo però «una dottrina del soggetto senza oggetto»; d’altro canto, Badiou sviluppa tale questione proprio in un articolo, uno dei più belli del volume, dedicato al loro comune maestro Canguilhem, dal quale entrambi traggono l’idea della non originarietà del soggetto, del suo installarsi sempre in una procedura nella quale esso si inserisce in quanto principio di differenziazione. Le analogie finiscono qui ed è difficile far dialogare la cura di sé foucaultiana con la teoria del soggetto badiousiana, ma ci sembra infine che interrogare Badiou a partire dalle istanze foucaultiane, che più gli sono estranee, sia in un certo senso come piazzarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda, riservargli lo stesso trattamento che egli applica a ogni filosofo de L’avventura della filosofia francese. Dopotutto, è quasi lui stesso, con l’indicazione iniziale e il forte richiamo a Canguilhem, a suggerire una simile lettura, come a voler riconoscere in Foucault un’opzione filosofico-politica incommensurabile e alternativa rispetto alla propria.



[1] Cfr. F. Worms (a cura di), Le moment 1900 en philosophie, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2004.

[2] Pubblicato in italiano da Il Melangolo, fa un po’ il paio con il volume che qui presentiamo, essendo anch’esso una raccolta di saggi dell’autore su altri filosofi francesi.

[3] M. Foucault, La vie : l’experience et la science, in «Revue de metaphysique et de morale», vol. 90 (1985), n. 1, pp. 3-14; trad. it di D. Buzzolan, postfazione a Il normale e il patologico di G. Canguilhem, pp. 269-283.

[4] Lo stesso Badiou affronta apertamente il problema del rapporto fra sapere e potere nell’ultimo saggio, dedicato a J. Rancière, pur affermando che «è proprio per cominciare da quanto mi è più lontano che ho deciso di abbordarne l’opera a partire da quello che più mi sembra estraneo: la relazione tra sapere e potere» (cfr. p. 171).

[5] B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, JacaBook, Milano 2002.

[6] M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir, Seuil/Gallimard, Paris 2011, leçon du 13 janvier 1971.

 
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