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L'analisi di Davidson è seguita dalla discussione pubblicata sulla rivista Storia illustrata nel 1961, che propose ad alcuni intellettuali italiani una serie di domande sulla questione ebraica. Alla discussione della Tavola rotonda parteciparono il filosofo Remo Cantoni, il professore di psicologia Cesare Musatti, il giurista Francesco Carnelutti e l'intellettuale dopo Auschwitz Primo Levi.

Il questionario ci aiuta a comprendere la specificità del punto di vista di Primo Levi. È una prospettiva unica, filtrata dallo spirito naturalistico e scientifico di chi ha osservato gli abitanti del pianeta Lager con lo sguardo del chimico: sono esseri umani, ma anche “campioni” da analizzare e pesare. La volontà di osservazione consentì al deportato Primo Levi di sottrarsi alla demolizione spirituale, al tentativo di “demolire l'uomo” ancor prima di ucciderlo.

Primo Levi riconosce nello sterminio nazista un unicum nella storia umana, che seppur intessuta di stragi (come gli aztechi ad opera degli spagnoli, gli armeni ad opera dei turchi), nessuna fra queste era stata così lucidamente programmata da principio e soprattutto nessuno aveva mai “inventato” i campi di sterminio, fabbriche di morte distinte dai campi di concentramento e in cui non si entrava che per morire. Retrospettivamente, sembra chiara l'aperta anti-utilità economica dei Lager (dal campo di Buna-Monowitz, il campo in cui Primo Levi lavorava, non uscì mai un grammo di gomma sintetica), ma deve essere ancora resa chiara la loro utilità politica: i campi erano impianti pilota in cui sperimentare un mondo diviso in sovra-razze e sotto-razze, un mondo in cui si sarebbe letto “Arbeit macht frei” su ogni scuola e fabbrica d'Europa.

Esiste una responsabilità collettiva della strage? No, si può parlare di «viltà collettiva»[1]: i tedeschi di allora volevano non sapere per mancanza di coraggio intellettuale, ipocrisia e pochezza d'animo. Alla domanda sul valore esemplare del processo Eichmann e della documentazione delle nefandezze naziste per le nuove generazioni, Primo Levi risponde affermando che la loro efficacia non può bastare finché permane «l'ambiguo clima di vacanza morale»[2] creato dal fascismo, scaturito dall'adesione a verità “dall'alto”, a verità rivelate, e che «sopravvive parte per inerzia, parte per sciocco calcolo»[3].

L'orientamento di Primo Levi, come sopravvissuto e testimone, delinea un «paradigma di etica senza moralismo»[4]: rivolgendosi al lettore di ieri e di oggi, Primo Levi ammonisce a diffidare delle «verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis»[5], per accontentarsi di verità modeste, conquistate faticosamente con lo studio e il ragionamento.

Il libro termina con la trascrizione della lettera immaginaria di Ferruccio Maruffi, presidente dell'associazione italiana ex deportati, a Primo Levi, scritta qualche anno dopo la sua scomparsa. La lettera sembra la risposta all'appello di Primo Levi: «Caro Primo, io, che vivo sicuro nella mia tiepida casa, che trovo tornando la sera il cibo caldo e la famiglia, ti scrivo. Per assicurarti che quel che allora era stato rimane indelebilmente scolpito nel cuore e nella mente di noi sopravvissuti»[6]. Un lettore che risponde attraverso il “real assent” descritto da Pierre Hadot, che a differenza del “notional assent” attraverso il quale aderiamo solo teoricamente ad una proposizione, implica l'adesione ad una proposizione che impegna interamente il nostro essere.

Ma l'appello era e rimane aperto perché noi dobbiamo ancora considerare “che questo è stato”, noi dobbiamo ancora praticare un “real assent” attraverso uno sforzo, un cambiamento del rapporto con noi stessi e con gli altri: leggere Primo Levi dovrebbe essere un esercizio anche per noi lettori di oggi, «leggere Levi dovrebbe essere un esercizio spirituale»[7].

Leggendo Se questo è un uomo come un testo pratico, ovvero come un testo su cui meditare “stando in casa andando per via”, se ne può forse cogliere la funzione eto-poietica, ovvero la possibilità di plasmare, attraverso la lettura del libro, il proprio atteggiamento, interiorizzando la verità per «trasformarla in un principio permanente di azione»[8], affinché l'aletheia (verità) diventi ethos (atteggiamento, modo di essere e di comportarsi). La volontà di cambiare prospettiva è sempre una conquista etica che richiede un difficile lavoro su se stessi attraverso una pratica costante il cui fine è l'attività stessa. Il pensare e il vedere in modo diverso «da quello in cui si pensa e si vede» è una pratica «indispensabile per continuare a guardare e a riflettere»[9].

L'etica è un esercizio di sé su di sé che non può essere compreso come una pratica di liberazione, ma piuttosto come una pratica di libertà. E forse vale la pena di ricordare il passo finale de La tregua, quando Primo Levi, ad avvenuta liberazione, sente ancora fluirsi «per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz»[10], e si chiede a quale fonte attingere per abbattere le barriere che sorgono spontaneamente durante le lunghe assenze e quanto di loro era stato eroso o spento.

I processi di liberazione, commenta Michel Foucault ne L'etica della cura di sé come pratica della libertà, possono essere la condizione delle pratiche di libertà, ma non sono sufficienti a definire quelle pratiche «che saranno successivamente necessarie affinché quel popolo, quella società e quegli individui possano definire per se stessi le forme ammissibili e accettabili della loro esistenza o della società politica»[11].

L'etica, a differenza della morale intesa come un sistema prescrittivo di valori cui il soggetto deve aderire, è un'attività attraverso la quale trasformare se stessi. Per plasmarsi come soggetto etico, non basta rendere il proprio comportamento conforme a una determinata regola, ma bisogna praticare un «lavoro etico»[12] (travail éthique) su se stessi. Nell'etica non basta appellarsi ad un sistema di valori, ma si tratta piuttosto di creare un modo differente di “condursi” (se conduire) attraverso il lavoro sui nostri limiti, per cogliere «la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo»[13].

L'etica è una pratica di elaborazione indefinita di noi stessi, è un'attività di superamento delle frontiere in vista di una trasformazione possibile ed augurabile.



[1] A.I. Davidson, op. cit., p. 44.

[2] Ivi, p. 46.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 18.

[5] P. Levi, Appendice di Se Questo è un uomo, in Opere, vol. I, Einaudi, Torino 1997, p. 199.

[6] A.I. Davidson, op. cit., p. 47.

[7] Ivi, p. 19.

[8] M. Foucault, Technologies of the self, The University of Massachusetts Press, Amherst 1988 (trad. it. di S. Marchignoli, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 32).

[9] M. Foucault, L'usage des plaisirs, trad. cit., p. 14.

[10] P. Levi, La tregua, in Opere, vol. I, Einaudi, Torino 1997, p. 394.

[11] M. Foucault, L'etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, p. 275.

[12] M. Foucault, L'usage des plaisirs, trad. cit., p. 32.

[13] M. Foucault, Qu'est-ce que les Lumières?, in Dits et écrits II, Gallimard, Paris 1994 (trad. it. di S. Loriga, Che cos'è l'illuminismo?, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, p. 228).

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