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Sandro Mezzadra

Réponses au forum "Michel Foucault et les résistances"

Propos recueilli par Daniele Lorenzini


       Le concept de résistance joue un rôle primaire dans l’analytique du pouvoir développée par Michel Foucault pendant les années 70. Notamment, dans La Volonté de savoir, Foucault souligne la corrélation incontournable entre formes d’exercice du pouvoir et résistances :

Là où il y a pouvoir, il y a résistance et […] pourtant, ou plutôt par là même, celle-ci n’est jamais en position d’extériorité par rapport au pouvoir. Faut-il dire qu’on est nécessairement « dans » le pouvoir, qu’on ne lui « échappe » pas, qu’il n’y a pas, par rapport à lui, d’extérieur absolu, parce qu’on serait immanquablement soumis à la loi ? Ou que, l’histoire étant la ruse de la raison, le pouvoir, lui, serait la ruse de l’histoire – celui qui toujours gagne ? Ce serait méconnaître le caractère strictement relationnel des rapports de pouvoir. Ils ne peuvent exister qu’en fonction d’une multiplicité de points de résistance : ceux-ci jouent, dans les relations de pouvoir, le rôle d’adversaire, de cible, d’appui, de saillie pour une prise. Ces points de résistance sont présents partout dans le réseau de pouvoir. (La Volonté de savoir, pp. 125-126)

Cette idée du rapport entre pouvoir et résistance possédait sans doute une puissante originalité et constituait un élément ultérieur de rupture de la pensée foucaldienne par rapport aux conceptions précédentes du pouvoir.

       Pourriez-vous indiquer les traits qui, à votre avis, demeurent les plus innovateurs dans cette idée de résistance, et expliquer si (et éventuellement comment) elle peut revêtir, encore aujourd’hui, un intérêt particulier ?

S. Mezzadra: Il problema della resistenza, in Foucault, è uno degli aspetti più rilevanti per chi voglia ragionare, oggi, sull’attualità della sua riflessione, ma al tempo stesso è un concetto estremamente problematico. Infatti, mettendo un attimo da parte la lettura di Gilles Deleuze (che è alla base di molte attualizzazioni), il concetto foucaultiano di resistenza è un concetto per così dire elementare, un concetto fisico che si colloca all’interno di una “fisica del potere”: il potere si applica a dei corpi, nel senso più lato del termine, e questi corpi “resistono”, analogamente a come “resiste” un tavolo quando si applica un potere su di esso, per esempio schiacciando il pollice. Questo concetto mi sembra, si badi bene, molto affascinante ed estremamente produttivo dal punto di vista di un’analitica del potere; però, chiaramente, l’“azione” viene dal potere e la resistenza, dunque, non viene prima, ma dopo. Logicamente, in simile scenario, l’affermazione di Deleuze secondo cui la resistenza viene prima è, per dirla in modo un po’ tranchant, priva di senso (il che corrisponde in qualche modo a una strategia di Deleuze). Perciò mi pare che, in fondo, le critiche mosse a Foucault a partire dalla metà degli anni settanta, sul tema del rapporto potere-resistenza, colgano effettivamente un problema, un punto cieco nel suo discorso – e non è un caso che egli, dopo La volonté de savoir, abbia cominciato ad occuparsi d’altro. Credo che l’itinerario di Foucault, dopo il 1976, vada letto in questa luce, ovvero come una serie di tentativi fatti per esplorare un campo oltre i “vicoli ciechi” nei quali la sua ricerca, pur straordinariamente produttiva, lo aveva condotto. Alcuni di questi tentativi, naturalmente, si esauriscono quasi subito. Ma, a partire dal corso Sécurité, territoire, population, mi sembra che Foucault cominci a focalizzare il tentativo cui vuole dedicarsi – e non è un caso che, subito dopo, ci sia un passaggio attraverso il tema del neoliberalismo.

La “governamentalità”, infatti, si presenta prima di tutto come una categoria per leggere il potere, ma al tempo stesso può essere anche una categoria (e per Foucault chiaramente lo diventa) attraverso cui rielaborare l’insieme delle questioni poste dalla resistenza, dalle lotte. E, da questo punto di vista, l’analisi del neoliberalismo riveste un ruolo fondamentale. Non dimentichiamo, infatti, il contesto storico del corso di Foucault del 1978-79: in quel periodo, di neoliberalismo si parlava ancora poco (dobbiamo quindi rendere omaggio alla preveggenza di Foucault, che capisce invece che il problema dei decenni successivi sarebbe stato il neoliberalismo), mentre si discuteva molto dello Stato. In particolare, con riferimento alla Germania, si parlava di una “fascistizzazione” dello Stato, attraverso la fascistizzazione della social-democrazia[1]. Foucault, nel 1979, fa piazza pulita di questi discorsi: nel corso sul neoliberalismo c’è infatti una critica esplicita e molto efficace del discorso sulla fascistizzazione dello Stato, sullo Stato che prende su di sé il controllo della società (l’étatisation della società)[2]: Foucault sostiene ci sia un diverso passaggio da prendere in considerazione, sintomo di un atteggiamento di lungo periodo che aveva cominciato ad analizzare l’anno precedente, ovvero di una tendenza verso la governamentalizzazione dello Stato – un processo che, tendenzialmente, mette in discussione la stessa forma dello Stato così come la modernità lo ha conosciuto. E non è indifferente ricordare come Foucault, nei suoi interventi, insista spesso sul fatto che la sinistra non abbia una teoria del (e una razionalità di) governo: questo ci fa capire come sia possibile leggere la riflessione di Foucault sul governo non solo dal punto di vista del potere, ma anche dal punto di vista della resistenza. Si tratta di un problema che è ancora un nostro problema: come elaborare, attraverso e oltre Foucault, una teoria “positiva” del governo, inteso come “governo del comune” se si vuole.

Ad essere sincero, poi, ho sempre fatto molta fatica a comprendere il significato dell’itinerario di Foucault dopo questo corso del 1978-79 sul neoliberalismo, il significato del suo “ritorno ai Greci”. È solo da qualche mese che mi appare più chiara, e interessante, la portata di questa scelta. Credo infatti che soprattutto l’ultimo corso di Foucault, Le courage de la vérité, apra effettivamente in direzione di una riqualificazione dell’etica sul terreno della soggettivazione politica, che può essere pensato come terreno autonomo, come terreno su cui, cioè, la soggettivazione politica si determina oltre i limiti, i vicoli ciechi di una concezione meramente fisica della resistenza. Su questo, potrei rimandare a un mio saggio recente, scritto per la rivista statunitense South Atlantic Quarterly[3], nel quale rifletto un po’ sulla distinzione che Foucault traccia tra “politica” (la politique) e “politico” (le politique), nel corso al Collège de France del 1982-83, Le gouvernement de soi et des autres[4]. Come noto, il tema del politico era un tema “caldo” nei primi anni ottanta in Francia, e Foucault aveva sicuramente in mente, come obiettivo polemico, i lavori di Claude Lefort. In qualche modo, credo allora che Foucault colga nella centralità del politico – diversamente declinata con riferimento a Carl Schmitt e ad Hannah Arendt da Mario Tronti, da Claude Lefort, ecc. – il tentativo di neutralizzare la portata dirompente dei movimenti degli anni intorno al ’68. E dunque penso anche che la sua riflessione sulla politica dei primi anni ottanta, riflessione che passa attraverso i Greci, sia motivata, sia pure con molte mediazioni (con molti passaggi intermedi), dall’esigenza di mantenere una fedeltà di fondo al maggio del ’68. E, per ritornare al punto da cui siamo partiti, mi pare che in questa luce acquisti un significato nuovo ed estremamente interessante proprio la riqualificazione etica della soggettivazione politica: ovvero, come dicevo, l’indicazione della possibilità di svolgere la questione della soggettivazione politica al di fuori del campo del potere e del suo rapporto biunivoco con la resistenza.

> Lire la réponse de Miguel de Beistegui

> Lire la réponse de Judith Revel



[1] Si veda ad esempio, per quel che riguarda il dibattito italiano, Il gulag socialdemocratico. Note sulla repressione in Germania, a cura di A. Assante e P. Pozzi, Mozzi, Milano 1977 (che ricostruisce comunque il quadro di feroce repressione in Germania federale alla metà degli anni settanta). Ovviamente, non tutta la discussione sul tema dello Stato era orientata in tal senso: le riflessioni di Toni Negri sulla crisi dello “Stato-piano”, sullo “Stato-crisi”, per esempio, andavano in una direzione molto diversa; cfr. A. Negri, Crisi dello Stato-piano: comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974 e soprattutto i saggi raccolti in Id., La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano 1977.

[2] Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/Gallimard, Paris 2004, pp. 78-80.

[3] Cfr. S. Mezzadra, Beyond the State, Beyond the Desert, in corso di pubblicazione in «South Atlantic Quarterly», 2011.

[4] Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 146-147.

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