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Alberto Burgio si concentra sulla continuità tra Foucault e Marx quanto al comune impegno nella analisi e nella critica del potere e sui caratteri comuni da loro individuati nei suoi meccanismi, a cominciare dal ruolo ineludibile della produzione e dell’accumulazione capitalistica nella sua funzione non solo repressiva, ma anche produttiva di soggettività. Contro una lettura economicistica di Marx che ha recidivamente comportato la banalizzazione del suo modello in senso deterministico, viene riconosciuto a Foucault il merito di aver contribuito a contrastare tale semplificazione. Nell’uso della nozione di egemonia e nella complessità attribuita alle relazioni di potere, si possono poi scorgere alcuni tratti teorici comuni tra Foucault e Gramsci, a dimostrazione del fatto che nonostante l’avversione nei confronti della scolastica marxista, il filosofo francese non ha cessato di confrontarsi con le ricerche provenienti da Marx e di attingere da esse. Non un Foucault anti-marxista, ma un Foucault costantemente in dialogo, e non solo in polemica, con l’eterogeneo campo dei marxismi. Al termine del suo intervento, Burgio esprime alcune perplessità circa la capacità della concezione foucaultiana del potere di spiegare la sua funzione di «vettore asimmetrico». Nell’eccesiva attenzione al carattere “orizzontale” delle relazioni di potere Burgio legge un certo «rifiuto di considerare la logica gerarchica dei sistemi (dei flussi) di potere» e della «operatività del nesso potere-dominio», così da lasciare in secondo piano l’intreccio potere-guerra tematizzato da Foucault stesso (p. 36). Non è qui possibile esporre i molti luoghi in cui il nesso orizzontalità-verticalità o disciplina-dominio viene esplicitamente affrontato da Foucault, forse proprio nel tentativo di smarcarsi dal rischio che le sue descrizioni del potere come rete di relazioni cui nessuno può dirsi estraneo fossero lette come negazione di ogni distinzione dominanti-dominati. Si può forse uscire da questa impasse leggendo in Foucault non una negazione del dominio, ma una problematizzazione dei suoi modi di costituzione e attuazione, un’analisi aperta delle sue condizioni di possibilità, evitando così di opporre come forme antitetiche il livello microfisico e quello sistemico del potere, il suo carattere anonimo orizzontale-trasversale e la sua funzione gerarchica verticale: Queste relazioni di potere, nonostante la loro complessità e la loro diversità, finiscono per organizzarsi in una specie di figura globale. Si potrebbe anche dire che si tratti del dominio della borghesia o di certi settori della borghesia sul corpo sociale. Ma io non credo che siano la borghesia o certi suoi settori ad imporre l’insieme di queste relazioni di potere. Diciamo che essa ne trae profitto, che le utilizza, che da ad esse un certo orientamento, che cerca di intensificare alcune di queste relazioni di potere o, al contrario, di attenuarne delle altre. Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come per emanazione tutte queste relazioni di potere, ma un intrico di relazioni di potere che, a conti fatti, rende possibile il dominio di una classe sociale su un’altra, di un gruppo su un altro[1]. Stefano Catucci mostra come, nonostante le affermazioni forti che in Le parole e le cose negano a Marx e al marxismo un carattere di rottura epistemologica nell’ambito dell’economia politica, Foucault abbia sia precedentemente che successivamente riconosciuto a Marx un ruolo teorico e politico di grande impatto e rinnovamento, consistente nell’innesco di una nuova forma di discorsività capace di scuotere la modernità e che non cessa di esprimere la sua vitalità pratica e il suo potenziale ermeneutico. Catucci passa poi al problema della scientificità del marxismo, affrontato da Foucault all’interno del tema più generale dei nessi tra sapere e potere. In quest’ottica, l’ipotetica scientificità del marxismo (così come della psicanalisi) è stata spesso guardata da Foucault più come un pericolo che come un valore aggiunto, e ciò nella misura in cui tale scientificità venisse intesa come validità atemporale. Ma assumendo tale scientificità come impegno rigoroso in una ricerca consapevole dei propri limiti, come lavoro empirico esposto agli eventi e attraverso essi sempre da ricominciare, Foucault ha d’altro lato riconosciuto senza alcuna riserva la presenza del discorso scientifico marxiano nelle sue opere, sebbene non nella forma da lui aborrita del commento fedele, della citazione dovuta a mo’ di auctoritas. Catucci affronta anche un altro tema assolutamente centrale nella polemica di Foucault con il marxismo, o più specificamente con il “socialismo reale”. La mancata elaborazione, da parte di quest’ultimo, di diversi metodi di governo ha portato alla reiterazione delle forme governative liberali se non al loro fatale ispessimento parossistico. È in relazione a questa problematica che Foucault esprime le accuse più pesanti al marxismo, vedendo in esso un inibitore storico della «facoltà di sognare l’avvenire della società umana»[2]. Qui si tocca forse un aspetto paradossale del rapporto Foucault-Marx. Il desiderio, strutturalmente marxiano, di trasformare il reale, di «forzare il limite del presente», comporta a detta di Foucault lo sbarazzarsi della scolastica marxista nella quale l’importanza del testo «è proporzionale all’assenza di un’arte socialista del governare»[3]. Eppure il contributo all’invenzione, all’immaginazione di un diverso scenario politico, è in Foucault inseparabile da un’opera di smascheramento dell’infondatezza dell’esistente intrapresa sul piano di un’analisi storica fortemente debitrice del lavoro teorico-critico di Marx – anche se, beninteso, non solo di questi. Guglielmo Forni Rosa, prendendo spunto principalmente dal corso del ’76 “Bisogna difendere la società”, opera una contestualizzazione storica del rapporto di Foucault con il marxismo, esaminando alcuni nodi teorici attorno cui esso si sviluppa: la scienza, l’individuo e l’universale. L’effetto totalizzante, sia a livello teorico che a livello pratico, che Foucault ascrive alla pretesa di scientificità del marxismo, va messo in relazione a due varianti specifiche in cui esso era presente in Francia: da una parte la sua declinazione esistenzialistica (Sartre, Merleau-Ponty), della quale Foucault rifiuta l’aspirazione fondazionalista di matrice fenomenologica; dall’altra il materialismo dialettico con il suo carattere dottrinario di metafisica della storia, il suo impiego dogmatico della dialettica, la sua funzione autoritaria in quanto teoria di partito. Quanto al secondo punto, Forni Rosa rintraccia una sostanziale vicinanza tra Foucault e alcune espressioni del marxismo non ortodosso (Scuola di Francoforte, Lukács), quanto alla critica della visione a-storica dell’individuo, dell’homo oeconomicus, del contratto sociale, propria del pensiero borghese. Tanto negli autori accennati, quanto in Foucault e in Marx, l’individuo è risultato: «sono le relazioni stesse (rapporti sociali, modo di produzione) che generano gli elementi che si trovano in rapporto» (p. 65). È invece la distanza tra Foucault e Lukács ad emergere riguardo al tema dell’universale. Nel corso del ’76 troviamo negata la famosa tesi che vede nel discorso storico un’invenzione della borghesia rivoluzionaria e del suo progresso razionale nel quale l’universale si incarnerebbe, hegelianamente, in una situazione storica determinata. Quello che Foucault chiama discorso storico-politico è stato prodotto, già nella sua forma compiuta, dalla aristocrazia francese in decadenza nella prima metà del XVIII secolo, ed era già stato utilizzato dai Levellers e dai Diggers nell’Inghilterra del periodo rivoluzionario. Ciò dimostra che esso è nato come strumento di lotta, come elemento tattico attraverso cui le fazioni in campo creano le identità in conflitto, fondano storicamente le proprie ragioni e rivendicazioni da un punto di vista necessariamente particolaristico. Tale particolarità rimarrà valida anche quando la borghesia si approprierà di questa arma discorsiva e la utilizzerà, a differenza dei precedenti soggetti politici, sotto le mentite spoglie della universalità, cioè come discorso dialettico propagandista di una falsa conciliazione. E anche il marxismo è stato consapevolmente erede della forma borghese di tale discorso, e lo ha riutilizzato, seppure anche per riattivare la lotta occultata dallo Stato borghese, per garantire un punto di vista universale e promettere una condizione di universale pacificazione, e cioè occultando il carattere “di parte” cui il discorso storico è genealogicamente legato. In Foucault troveremmo posizioni fortemente antitetiche a questa concezione della dialettica, della quale egli sosterrebbe una versione tragica in cui la guerra è vista come un fattore insuperabile, sulla scia di Nietzsche, di Weber, dell’ultimo Freud. Quest’ultimo punto è particolarmente problematico, in quanto oltre all’opposizione tra discorso dialettico che occulta la guerra e discorso storico-politico in cui essa viene al contrario fatta riemergere come condizione reale dei rapporti sociali, “Bisogna difendere la società” rende possibili altri livelli di lettura. Brevemente si può dire che in esso troviamo una genealogia della genealogia in cui lo stesso paradigma della guerra (che Foucault chiama anche “ipotesi Nietzsche”) viene posto al vaglio di un’analisi storica che ne rintraccia le provenienze e cerca di misurarne il potenziale ermeneutico nell’analisi del potere. Sarebbe a dire che il fattore-guerra non è semplicemente la tesi di Foucault, ma piuttosto la tesi di cui parla Foucault, e che occuperà in modo estremamente ricorrente la riflessione di quegli anni. Foucault non si chiede solamente attraverso cosa il potere si istituisca, si imponga e decada, per rispondersi che questo qualcosa è la guerra, ma si interroga continuamente circa l’identità della guerra-lotta stessa, la sua capacità e utilità nell’esprimere compiutamente l’origine e il funzionamento dei rapporti di potere, e su come essa vada intesa per rendere efficace l’azione politica[4]. [1] M. Foucault, Il potere, una bestia magnifica, cit., p. 86. Cfr. anche M. Foucault, I rapporti di potere passano all’interno dei corpi (1977 - DE n.197), in Dalle torture alle celle, cit., p. 123; Come si esercita il potere (1982 - DE n.306), in H.L. Dreyfus-P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle grazie, Firenze 1989; Intervista a Michel Foucault (1976 - DE n.192) e Potere e sapere (1977 - DE n.216), entrambi in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, cit. [2] M. Foucault, Metodologia della conoscenza del mondo, cit., p. 245. [3] M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-79, Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 95. [4] Spesso si tende a identificare in modo troppo netto le posizioni di Foucault con quelle di Boulainvilliers, da lui esposte, in modo anche enfatico, in “Bisogna difendere la società”. Eppure nell’unica occasione in cui, al di fuori di questo corso, cita il marchese francese, Foucault dice: «Il potere, in realtà, è fatto di relazioni, è un fascio più o meno organizzato, più o meno gerarchizzato, più o meno coordinato, di relazioni. Quindi, il problema non è di costruire una teoria del potere che avrebbe la funzione di rifare ciò che avevano in mente Boulainvillliers, da un lato, e Rousseau, dall’altro. Entrambi partono da uno stato originario in cui tutti gli uomini sono uguali, e poi che succede? Invasione storica per il primo, evento mitico-giuridico per il secondo. In questo modo accade sempre che da un momento all’altro le persone non hanno più diritti e c’è il potere. Se si cerca di elaborare una teoria del potere, si sarà sempre obbligati a considerarlo come qualcosa che nasce in un punto e in un momento dati, bisognerà farne la genesi, e poi la deduzione. Ma se il potere è in realtà un fascio aperto, più o meno coordinato di relazioni, allora l’unico problema è quello di servirsi di una griglia di analisi che consenta un’analitica delle relazioni di potere»; M. Foucault, Il gioco di Michel Foucault (1977 - DE n.206), in Follia e Psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Cortina, Milano 2005, p. 160. |