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       Nei testi che Foucault dedica alla pittura, uno dei temi ricorrenti è senz’altro quello del rapporto tra due dimensioni, quella del ‘visibile’ e dell’ ‘enunciabile’, che pur essendo irriducibili, sono al tempo stesso complementari. In modo peculiare, tale rapporto viene indagato nell’ambito delle argomentazioni sull’arte pittorica attraverso un’analisi della nozione di sguardo e, quindi, delle diverse modalità in cui il soggetto, con il modificarsi delle condizioni del cosiddetto regime scopico, si costituisce di volta in volta in quanto ‘spettatore’.

       Il rapporto tra visione e linguaggio, nonché le problematiche legate all’esercizio dello sguardo, non sono però tematiche che Foucault utilizza esclusivamente per la pittura. Infatti, tali temi, essendo legati alla formazione del sapere, alla nozione di verità e all’esercizio del potere, riemergono in altri contesti. Secondo lei, in che modo e con quali caratteristiche i rapporti tra visibile ed enunciabile e la nozione di sguardo, vengono utilizzati negli anni Settanta nell’ambito dell’analitica del potere?

S. Catucci: Direi che la relazione tra il visibile e l’enunciabile, come pure la nozione di sguardo, acquistano il loro senso per Foucault proprio in rapporto all’analitica del potere. Si ricorderà un passaggio storico descritto, o meglio tratteggiato a grandi linee in Sorvegliare e punire. Nel Libro A della Metafisica Aristotele parla della vista come del senso che gli uomini amano maggiormente per via della loro propensione al conoscere. In virtù della loro natura, dice più o meno Aristotele, tutti gli uomini amano il sapere e fra i loro sensi preferiscono la vista proprio perché mostra la varietà del molteplice e fa acquisire, perciò, un numero maggiore di conoscenze. Nel mondo moderno, osserva Foucault, la vista non viene ritenuta preziosa per il sapere, ma per il ruolo discriminante che ricopre nella definizione delle relazioni di potere. La vista diventa ormai epistemologicamente significativa in quanto strumento e posta in gioco del potere-sapere. Ma appunto per questo è necessario che le ipotesi antropologiche di Aristotele e la stessa fisiologia dell’organo visivo escano di scena: a esercitare un ruolo cruciale non è più la vista, intesa come senso naturale, bensì la distinzione fra il visibile e l’invisibile. Foucault parla di un mutamento intervenuto nell’asse della visibilità, di soglie che permettono ai fenomeni o agli individui di emergere alla visibilità, oppure di forze che li spingono verso un regime di invisibilità, voluto o subìto. Ad ogni modo è questo mutamento che richiede l’elaborazione della nozione di sguardo, cioè di un vedere incarnato nei corpi e dotato di una storia: non l’occhio teoretico della disposizione naturale verso il conoscere, ma quello prodotto dal gioco sociale dei rapporti di forza. La distinzione tra il visibile e l’enunciabile è a sua volta in relazione con questo gioco. Nell’analitica del potere visibilità ed enunciabilità sono termini di una lotta il cui esito è sempre instabile, anzi viene continuamente rinegoziato senza mai poter essere fissato in un apparato categoriale. Per questo credo che il campo del potere non sia semplicemente per Foucault un’estensione o un ambito di applicazione di quelle distinzioni, ma il luogo nel quale esse acquistano senso ed efficacia. Lo ‘stile ottico’ e il ‘carattere visivo’ della storia ricostruita da Foucault, temi su cui ha scritto in modo illuminante Michel de Certeau, hanno perciò un valore fondamentale: non c’è storia se non di ciò che si vede e di ciò intorno a cui si possono produrre enunciati, ma al tempo stesso Foucault non smette di indagare le condizioni che permettono o costringono qualcosa a diventare oggetto di sguardi e di discorsi.

La dimensione estetica, per tornare così anche alla prima domanda, è ciò che sancisce proprio in senso epistemologico la distinzione fra quei due ambiti, visibile ed enunciabile, facendo emergere uno strato della sensibilità refrattario all’ordine del discorso. In questo ci sono operatori primari che rinviano a una serie di procedure di esclusione una delle quali, la distinzione tra il vero e il falso, acquista storicamente un’importanza crescente. Per quanto sia sottoposta a un regime molto simile, la visibilità mantiene sempre un margine che sfugge alle procedure di esclusione, che resiste a questa dinamica. Mi è capitato di ipotizzare, in un piccolo saggio, che quanto Foucault attribuisce alla possibilità di forzare i limiti discorso, di valorizzare le alterità e di praticare una resistenza sia da ricondurre proprio a quell’eccedenza del visibile che l’enunciabile non può acquisire. Questo spiegherebbe anche perché, malgrado la pervasività dei sistemi di documentazione che pedinano le nostre esistenze, l’emergere oltre la soglia della visibilità sia descritto da Foucault storicamente come una conquista dell’individuo e attualmente come una possibilità aperta, non riducibile soltanto a un ordine sociale di tipo panottico. Faccio solo un accenno per sommi capi. Più volte Foucault ricorda che la visibilità è stata a lungo un obiettivo che gli individui comuni hanno cercato di conquistare, un livello che un tempo competeva soltanto al sovrano, o agli uomini illustri, e che ora invece riguarda tutti, anche gli uomini infami, visto che è consegnato alla costante registrazione delle nostre vite in un archivio di scritture e di dossier sanitari, anagrafici, bancari, polizieschi e così via. L’enunciabile – la ‘scritturazione’ – fa parte qui del gioco del visibile non perché gli è identico, ma perché contribuisce a produrlo. Al tempo stesso proprio la visibilità può diventare come una garanzia contro il sopruso – i governi tendono a nascondere le loro vittime, come nel caso esemplare di Guantanamo – e persino una strategia di resistenza: niente è deciso a priori per il semplice fatto di essere diventato visibile, proprio perché la visibilità conserva un’eccedenza che si può invertire di segno e caricare di un potenziale emancipatorio. Foucault ne accenna provocatoriamente in un’intervista nella quale il discorso cade sul familisterio di Godin, un’architettura che sintetizza in modo paradossale filantropia e rigore disciplinare. Nel familisterio nessuno poteva entrare senza essere visto da tutti gli altri, il che poteva naturalmente diventare oppressivo se le persone avessero cominciato a sorvegliarsi reciprocamente. Immaginiamo però che nel familisterio, approfittando di quella condizione di visibilità reciproca, avessero preso piede pratiche sessuali illimitate: «sarebbe diventato un luogo di libertà», dice Foucault. Credo che anche la questione dell’estetica dell’esistenza, nelle sue ultime ricerche, abbia a che fare con l’irriducibilità reciproca di visibile ed enunciabile, questione che dunque occupa nel suo pensiero uno spazio molto più ampio di quello che pure gli è dedicato in modo specifico, quando si occupa di pittura, di arti visive o anche di letteratura.

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       Un’altra nozione che caratterizza la critica letteraria di Foucault negli anni Sessanta e che ricompare negli anni Ottanta nell’ambito delle riflessioni sull’estetica dell’esistenza è quella di scrittura. Una nozione che, inizialmente collegata all’esperienza letteraria e quindi valutata come ‘esperienza-limite’, viene poi utilizzata come una delle tecniche di elaborazione e costituzione del sé. Come interpreta questo cambio di prospettiva e, più in generale, il fatto che alcuni temi siano costantemente presenti nella riflessione filosofica foucaultiana?

S. Catucci: Credo di avere già accennato a una risposta: Foucault non si è confrontato con la letteratura e la pittura sulla scorta di un interesse specialistico, da critico o da storico dell’arte, ma per trovare esperienze che praticassero in concreto modi di ‘pensare diversamente’. A mano a mano che ha precisato il suo orizzonte filosofico, non ha più avuto bisogno di isolare l’arte e la letteratura come ambiti a sé stanti dell’esperienza intellettuale, ma ha potuto trovare modelli di pensiero critico anche nelle avventure, o per meglio dire nelle disavventure quotidiane di esistenze che avevano consumato il loro destino nel tête à tête con il potere, per lo più uscendone distrutte. Dopo avere scavato in questa direzione Foucault si è ritrovato sospinto verso una serie di domande che aveva lasciato provvisoriamente, e forse metodologicamente in sospeso. Domande che riguardavano il soggetto, i suoi modi di costituzione e di problematizzazione, ma anche la sua possibilità di esercitare una forza di resistenza, cioè la possibilità di smarcarsi dal tête à tête con il potere: tema centrale e tuttavia sommamente indeterminato nei suoi scritti a partire almeno da La volontà di sapere. La questione della resistenza si intreccia con quella dell’autonomia nella costituzione di sé: un’autonomia da ricercare non nel chiuso del proprio foro interiore, ma appunto nella possibilità di pensare diversamente e di franchir la limite sapendosi sempre condizionati dal ‘fuori’ in cui si è collocati. La scrittura mi sembra essere stata vista da Foucault come un atto di esteriorizzazione, un esercizio di dissociazione del sé che procede in due direzioni: iscrive il soggetto in un luogo fisico posto fuori di lui – il foglio, il libro, il segno – e porta all’interno del soggetto segnali di esteriorità non riducibili. Penso alle pagine dedicate, proprio nel saggio La scrittura di sé, alle lettere, al «servizio d’anima», ma soprattutto alle raccolte di citazioni diffuse nella cultura ellenistica, stoica, e chiamate Hypomnemata. Foucault le descrive come un esercizio dispersivo ma che tuttavia promette una riunificazione. La sintesi fra le citazioni, le annotazioni di frasi che avevano avuto un rilievo in una determinata situazione, di ricordi e di consigli non è data dalla composizione, come avverrebbe in un libro o in un romanzo, ma si compie nello scrittore stesso tramite la sequenza che porta dall’ascolto o dalla lettura alla memoria, quindi alla scrittura che annota e infine alla consultazione di quanto è stato annotato. Si ricorderà che Foucault definisce ‘etopoietico’ questo tipo di esercizio scritturale. Si può dire che la scrittura valga, per l’ultimo Foucault, come un modo di stare nel ‘fuori’ coltivando il bisogno della dispersione senza ricorrere né a una dialettica né a una pseudodialettica.

Credo che il tema del rapporto fra il soggetto e il suo ‘fuori’ sia un tema costantemente presente in Foucault, con modulazioni diverse, insieme alla necessità di un progetto filosofico che si vuole critico nel senso più rigoroso ma anche più ‘attuale’, cioè in una prospettiva sincronizzata con l’epoca storica in cui viviamo e che sappia perciò farsi carico del presente. È un progetto che – per schematizzare – ha potuto avere come interlocutori privilegiati Bataille, Nietzsche oppure Kant, così come ha potuto trovare appiglio in Platone, in Goya, in Roussel, oppure andare alla ricerca di esistenze perdute come quelle dei parricidi, degli ermafroditi e degli ‘infami’. Ciò che rimane costante è l’attitudine illuministica di Foucault, divenuta anche per lui consapevole con il tempo e condensata, proprio alla fine, nell’idea di un’attitudine ‘parresiastica’ del pensiero. È l’attitudine che, come si legge nel corso Il coraggio della verità, riconduce «ostinatamente e sempre ricominciando da capo» il problema della verità a quello delle sue «condizioni politiche» e a quello della «differenziazione etica», il problema del potere al «suo rapporto con la verità e con il sapere da un lato, a quello con la differenziazione etica dall’altro», la questione del soggetto a quella «del discorso vero nel quale un tale soggetto si costituisce e delle relazioni di potere nelle quali esso si forma». È l’immagine di un pensiero inquieto, intransigente ma anche aperto, che pensa a un arcipelago piuttosto che a un’isola, per così dire, ma che a mio parere fotografa perfettamente la ragione del ritorno, nel suo lavoro, di questioni che a un certo punto sembravano perdute o l’emergere di altre che sembravano da lui essere state escluse per principio.

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