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Judith Revel

Replies to the forum "Michel Foucault and resistances"


       Il concetto di resistenza svolge un ruolo centrale nell’analitica del potere sviluppata da Michel Foucault negli anni Settanta. Come è noto, ne La volontà di sapere Foucault sottolineava la correlazione inevitabile tra forme di esercizio del potere e resistenze:

Là dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente “dentro” il potere, che non gli si “sfugge”, che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge? O che, se la storia è l’astuzia della ragione, il potere sarebbe a sua volta l’astuzia della storia - ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, di appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama di potere. (La volontà di sapere, pp. 84-85)

Questa concezione del rapporto tra potere e resistenza possedeva senza dubbio una fortissima originalità e costituiva un ulteriore elemento di rottura del pensiero foucaultiano rispetto alle precedenti concezioni del potere.

       Potrebbe indicare quelli che, secondo lei, rimangono i caratteri più innovativi di questa idea di resistenza e spiegare se (ed eventualmente come) essa può rivestire ancora oggi un particolare interesse?

J. Revel: Il carattere innovativo del pensiero di Foucault non riguarda solamente la resistenza, ma anche la concezione dei rapporti di potere – non mi sembra giusto sbilanciare in direzione del polo “resistenziale” un’analitica che invece prova a mostrare l’indissolubilità delle reti di potere e dei punti di resistenza ad esse. Tuttavia credo ci siano almeno due elementi fondamentali da sottolineare, nella misura in cui hanno suscitato all’epoca forti critiche (in particolare da parte dei rappresentati del marxismo “ortodosso”) e possono oggi diventare centrali nel contesto della nostra attualità.

Il primo è che se poteri e resistenze si danno insieme e non possono essere pensati (né riscontrati nel reale) separatamente, ciò non significa che siano equivalenti, o che vengano presi dentro un circolo dialettico senza fine. Dire che non c’è potere senza resistenza (né resistenza senza potere) non significa tornare alle formulazioni foucaultiane degli anni Sessanta sull’indissolubilità del legame dialettico tra limite e trasgressione. Sappiamo che è precisamente l’impossibilità a rompere il circolo dialettico trasgressione/limite (il limite è confermato dalla trasgressione, che a sua volta ha bisogno di un limite da superare per affermarsi) che ha spinto Foucault a cercare altrove – nell’analitica dei poteri e non più soltanto in una riflessione sul linguaggio – la possibilità di un pensiero non dialettico della resistenza.

La coppia potere/resistenza non è la coppia trasgressione/limite perché introduce una dissimmetria tra due termini comunque non pensabili l’uno senza l’altro. La difficoltà è a questo punto doppia: logica e ontologica. Logica: come pensare insieme l’indissolubilità e la dissimmetria, il chiasma e l’incommensurabilità? Ontologica: in cosa risiede la “differenza” qualitativa dei due termini? Dov’è l’elemento dissimmetrico che impedisce al circolo dialettico di chiudersi, blocca ogni possibilità di Aufhebung, rompe dall’interno della struttura chiasmatica potere/resistenza la loro apparente simmetria? Su questa doppia difficoltà, Foucault ci lascia alcuni elementi di risposta. Uno è esplicitamente menzionato nella citazione di La volontà di sapere alla quale vi riferite nella vostra domanda: Foucault vi sottolinea in effetti “il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere”, vale a dire la sua dipendenza da ciò a cui si applica (e che invece sembra ontologicamente e cronologicamente preesistere alla sua captazione da parte del potere: quello che, più tardi, Foucault chiamerà l’intransitività della libertà). Siamo dunque in presenza di due elementi che non possono essere pensati l’uno senza l’altro, ma uno dei quali ha per essenza di applicarsi di relazionarsi, di agire su qualcosa; mentre l’altro è l’elemento incondizionato sottoposto a tale relazione di potere. Ora è chiaro che porre il problema in termini di anteriorità cronologica (della resistenza rispetto al potere) è riduttivo, perché la linearità cronologica a sua volta è spesso decostruita da Foucault, cioè analizzata come un processo di messa in ordine epistemologico e in quanto tale storicamente situato in un orizzonte preciso che è quello della Ratio scientifica. Ciò non toglie che dire del potere che si applica laddove la resistenza è, in quanto manifestazione della libertà, intransitiva; opporre la natura genitiva, gestionaria, del potere a quella creativa, produttrice, creativa della resistenza significa sottolineare una differenza ontologica potente tra i due termini. E non c’è da stupirsi che gli ultimi anni della ricerca foucaultiana siano stati essenzialmente dedicati all’analisi del processi di soggettivazione: non, come si è detto a volte, come un’uscita da quell’analitica dei poteri che aveva segnato il decennio precedente, ma come la sua continuazione in direzione di un approfondimento della comprensione di questa dissimmetria.

Il secondo elemento deriva allora dalla rottura di questo cerchio dialettico nel quale si pensava dovesse per forza essere pensato il rapporto di potere ( e la cui formulazione canonica hegeliana era ovviamente quella della dialettica servo/padrone). Quando l’unico modo che possiede il servo di ribaltare la sua sudditanza è quella di lavorare, sembra invece che in Foucault la dissimmetria passi attraverso un’attività di creazione, di invenzione, di inaugurazione (ed è su questa base che alcuni foucaultiani, di cui faccio parte, insistono sull’uso del termine ontologia da parte di Foucault negli ultimi anni: alla lettera, produzione di essere nuovo). Né consumare, né esaurire, né solo trasformare, a meno che la famosa frase di Marx nelle sue Tesi su Feuerbach (“I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in maniera diversa, ma ciò che importa è modificarlo”). Significa trasformare attraverso la creazione di forme di vita nuove – e siamo stranamente vicini alla enigmatica allusione di Foucault, alla fine del manoscritto del suo ultimo corso al Collège de France, ad una “vita altra”.

Ma d’altra parte, anche dal punto di vista strettamente politico esiste una conseguenza politica immediata: perché se la dissimetria sta nell’essere capaci non solo di applicarsi, di sfruttare, di modificare, di gestire, o di canalizzare – ciò che caratterizza la relazione di potere nella sua natura “relazionale” – ma di produrre o di inaugurare, allora un mero orizzonte di liberazione (dal potere) non potrà bastare; o più esattamente, se l’idea della liberazione (sotto la forma della conquista di diritti finora negati per esempio) è necessaria, non è tuttavia sufficiente nella misura in cui lascia da parte l’essenza produttiva della resistenza, la radice inventiva della dissimmetria, insomma il carattere ontologicamente affermativo e positivo della resistenza. Le lotte di liberazione sono sacrosante, ma non possono fare a meno della pratica intransitiva della libertà. Senza libertà, non vi sarà nessuna eccedenza; e senza eccedenza, perdiamo la dissimmetria tra potere e resistenza. Pratica della libertà e resistenza sono qui termini sinonimi. Ora, precisamente, c’è sempre libertà all’interno delle relazioni di potere, perché se il potere fosse “saturo” (la parola è di Foucault), non saremmo più nel potere ma nella dominazione.

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