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Emanuele Leonardi

Cronache da un eterno presente


Uses and abuses of historical contextualization in Daniel Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale, Aden, Bruxelles 2014 (468 p.)


Recensire Critiquer Foucault non è compito agevole, per almeno due ragioni. La prima è che il volume si presenta come fortemente disomogeneo, tanto nelle tesi sostenute quanto nei testi di volta in volta presi in considerazione: nei sei saggi Foucault viene criticato “da destra” e “da sinistra”, talvolta rispetto ad un nodo problematico specifico, talaltra a causa di una certa postura autoriale o attitudine filosofica. Anche le opere discusse variano sensibilmente: si spazia dalle lezioni biopolitiche (1976-1979) ad una recensione giornalistica del 1977 per Le Nouvel Observateur, da Sorvegliare e punire (1975) al corpus foucaultiano tout court – rimane tuttavia curioso il fatto che, a dispetto del titolo, la produzione degli anni ottanta venga menzionata di rado e non occupi mai il centro della scena.

Tale frammentarietà suggerisce di passare brevemente in rassegna i vari contributi. Il primo è quello di Michael Scott Christofferson, che descrive in maniera piuttosto asettica gli elementi contestuali che hanno condotto Foucault ad apprezzare pubblicamente un’opera controversa come Les maîtres penseurs (1977) di André Glucksmann. Si cita opportunamente una certa «affezione anti-statale alla democrazia diretta», mentre per quanto riguarda «la sua intensa tendenza anti-comunista» (p. 23) sarebbe stato lecito attendersi un’analisi un poco più approfondita. Proprio in ragione di ciò che Christofferson definisce enfaticamente «il dominio del marxismo e del comunismo nella cultura francese» (p. 28), pare evidente che la critica foucaultiana abbia molto a che fare con la loro natura di lingua maggiore, per dirla con Deleuze e Guattari, cioè con i loro effetti di ossificazione egemonica e di cristallizzazione identitaria. L’approccio di Foucault sfugge al rigido aut-aut tra fideismo marxista e indifferenza anti-marxista. Tornerò più avanti su questo problema, ma introdurlo qui serve a relativizzare affermazioni davvero troppo altisonanti, come per esempio la seguente: «[L’]anarchismo per partito preso del pensiero di Foucault portò a dei punti di convergenza con Glucksmann» (p. 31). Le cose non stanno esattamente così: è semmai la distanza di Glucksmann dal dogmatismo del marxismo “ufficiale” a costituire un elemento di affinità e interesse.

Gli interventi di Loïc Wacquant e di Jan Rehmann pongono con puntualità e rigore il problema del perdurare di coercizione e dominio nel contesto della governamentalità (in particolare di quella neoliberale). Il primo, sulla base di una prospettiva strutturalista, rimprovera al pensiero foucaultiano una sorta di cecità nei confronti dello Stato – che gli impedirebbe di comprendere la trasformazione di quest’ultimo in un «Leviatano neoliberale» (p. 127) estremamente violento – e l’incapacità di cogliere come la crisi del welfare abbia condotto alla doppia trappola di un workfare punitivo e un prisonfare classista. Rehmann contesta invece a Foucault – ma più corretto sarebbe dire ai Governmentality Studies, in specifico quelli tedeschi – il disinteresse per l’analisi del neoliberalismo come ideologia. Richiamandosi alla riflessione gramsciana sul concetto di egemonia, l’autore mostra come le retoriche dell’efficientismo e dell’auto-imprenditoria nascondano i segni di una forma inedita di dominio di classe e che, di conseguenza, «le nuove tecniche di governo proposte dalla letteratura manageriale dovrebbero rapportarsi al modo di produzione capitalistico nella sua dimensione high-tech» (p. 158).

Questi contributi pongono questioni di grande rilievo agli studiosi di Foucault, ed è forse un’occasione mancata il fatto che questi ultimi vengano evocati non come interlocutori bensì come oggetti polemici: credo infatti che l’analisi dello Stato neoliberale in Naissance de la biopolitique possa apportare elementi analitici importanti allo studio della progressiva privatizzazione del sistema carcerario americano, e che la nozione di regime di verità possa configurarsi come valido contrappunto alla tendenza dei critici dell’ideologia a separare con eccessiva precisione il “vero” dello sfruttamento economico dal “falso” della sua rappresentazione sociale. In ogni caso, siamo di fronte a obiezioni di sostanza, con le quali è utile confrontarsi e, possibilmente, dialogare.

Lo stesso non può dirsi – e davvero dispiace doverlo rimarcare a proposito di un grande antropologo – del contributo di Jean-Loup Amselle. Nel tentativo di mostrare l’irrimediabile conservatorismo del Maggio ’68, Amselle getta nello stesso calderone autori anche assai distanti come Deleuze e Levy, Derrida e Sartre, Clavel e Foucault – tra gli altri – in quanto, a suo avviso, avrebbero rinunciato alla prospettiva di una trasformazione razionale della società: «Abbasso i Lumi! Ecco quale potrebbe essere la parola d’ordine del piccolo mondo filosofico del post-1968. […] Tutti sono accomunati dalla lotta contro il totalitarismo di cui il marxismo sarebbe il principale responsabile» (p. 169). Come se non bastasse l’inconsistenza di questa proposizione, si prosegue sostenendo che la microfisica del potere proposta da Foucault non può fregiarsi del titolo di “filosofia politica” in quanto non si indirizza allo studio dello Stato, oppure che le sue riserve nei confronti della dialettica hegeliana gli hanno impedito di accostarsi all’analisi non solo del «senso della storia», ma pure del suo «movimento» (p. 167). Insomma, si tratta di un esercizio di vis polemica che sfortunatamente non presenta alcun elemento di ulteriore sviluppo, e che va dunque derubricato alla categoria dei faux pas.

Ma veniamo al secondo motivo di difficoltà per il recensore. Esso è rappresentato dall’acceso dibattito suscitato, soprattutto in ambito anglofono, non già dal volume – la cui traduzione è in corso – ma dall’intervista concessa da Daniel Zamora al settimanale francese Ballast, successivamente tradotta dalla rivista statunitense Jacobin[1]. In essa si sostiene che il Foucault della fine degli anni settanta non si sarebbe limitato allo studio del neoliberalismo, ma ne sarebbe stato indubbiamente sedotto. Benché la tesi non sia nuova – fu dibattuta addirittura prima della pubblicazione dei corsi biopolitici[2] –, resta significativo il fatto che sappia ancora smuovere passioni viscerali su entrambe le sponde dell’Atlantico. La ragione di ciò, credo, sta nel fatto che la posta in gioco di questo confronto non riguarda soltanto una “corretta” descrizione delle opinioni di Foucault nella seconda metà degli anni settanta, bensì evoca immediatamente la possibilità o meno di un uso politico della cassetta degli attrezzi foucaultiana nel nostro presente.

Non è dunque ozioso avanzare alcune considerazioni in proposito. In primo luogo, mi pare sia necessario isolare nel testo curato da Zamora l’asse fondamentale che sostiene la pretesa che il Foucault biopolitico sia impegnato in una vera e propria «apologia del neoliberalismo»[3]. I due autori che si cimentano con tale argomento sono lo stesso Zamora e lo storico americano Michael Behrent[4]: essi elaborano prospettive uguali e contrarie in quanto concordi rispetto alla diagnosi (Foucault è un precursore più o meno consapevole dello smantellamento neoliberale del welfare), ma divergenti in rapporto alla prognosi (Zamora suggerisce un ritorno alla difesa della Sécurité Sociale come argine alla disuguaglianza – ergo: dimenticare Foucault –, mentre Behrent ritiene la terza via blairiana il modo migliore per governare le società complesse del XXI secolo – ergo: radicalizzare Foucault). In buona sostanza il terreno di scontro è l’egemonia neoliberale contemporanea, mentre le posizioni in campo sono l’alterità rivoluzionaria (postura marxista ortodossa) e il pragmatismo efficentista (postura post-ideologica). Si può notare con chiarezza questa compresenza di condivisione e scontro nell’atteggiamento dei due autori rispetto a François Ewald – maoista nei primi anni settanta, assistente di Foucault al Collège de France negli anni successivi, oggi eminenza grigia del MEDEF, la confindustria francese –: benché Zamora lo consideri una sorta di nemico di classe e Bherent una specie di faro intellettuale, né l’uno né l’altro si domandano se l’eredità foucaultiana possa interamente risolversi nel percorso concettuale di un suo allievo.

Per questa ragione, al di là dei motivi d’interesse contenuti nei due saggi (che ci sono: sebbene discutibili – come è ovvio – alcuni passaggi sono pregnanti e ben costruiti), è il punto di vista costruito sull’eterno presente che fa problema: le questioni poste a Foucault danno per scontata non solo la “vittoria” del neoliberalismo (difficilmente contestabile, anche se attraversata da tensioni che sarebbe bene non sottovalutare), ma anche e soprattutto la sua “ineluttabilità storica” (come se qualsiasi critica al sistema welfaristico della fine degli anni settanta equivalesse immediatamente ad una politica neoliberale). Ciò che dunque fa difetto alle riflessioni di Beherent e Zamora non è lo sforzo di contestualizzare storicamente le proprie analisi, quanto la cristallizzazione di quel contesto a partire da un esito contemporaneo in qualche modo necessitato. Più o meno il ragionamento è il seguente: data l’ascesa vittoriosa del neoliberalismo, la sua vicenda storica può essere letta attraverso l’interazione di due soli attori – chi l’ha supportato e chi l’ha osteggiato –; dato che l’oggetto polemico del neoliberalismo sono state le politiche welfaristiche conquistate dalla lotta di classe, ne deriva che chi le ha criticate ha ipso facto attivamente sostenuto la marcia neoliberale. In altri termini, si proietta il presente sul passato in modo da interpretare lo sviluppo di quest’ultimo sulla base del punto d’arrivo cui giungerà. En passant, più o meno l’opposto della genealogia foucaultiana.

Possiamo notare nitidamente questo incedere argomentativo sia per quanto riguarda il supposto anti-marxismo di Foucault sia in relazione alla sua vicinanza alla cosiddetta Seconda Sinistra (Deuxième Gauche), cioè quella cultura politica post-’68 fortemente ancorata alle lotte sociali per l’emancipazione, legata alle pratiche di autogestione e decentralizzazione – quindi assai scettica rispetto al centralismo statalista e burocratico proprio della Prima Sinistra, rappresentata in particolare dai Partiti comunista e socialista. Rispetto al primo punto, stupisce il fatto che né Zamora né Behrent discutano la distinzione operata da Foucault tra pensiero di Marx e marxismo, tanto il suo innegabile interesse per il primo – esplicito almeno fino al 1976, anno della conferenza Le maglie del potere, pronunciata all’Università di Bahia – quanto la sua evidente insofferenza nei confronti del secondo. Quest’ultima, in ogni caso, andrebbe analizzata avendo ben presenti alcuni fondamentali elementi di contesto: Foucault è perfettamente consapevole che non esiste un marxismo, ma una pluralità di pratiche e discorsi che ad esso si rifanno. Philip Barnard e Stephen Shapiro, per esempio, sottolineano l’interesse di Foucault per una serie di critiche – anche molto diverse tra loro – indirizzate a tre forme di marxismo francese tra gli anni sessanta e settanta: quello profetico del PCF, quello strutturalista di Althusser e quello fenomenologico di Merleau-Ponty[5]. Similmente, Alberto Toscano suggerisce di non perdere di vista le determinanti spaziali di una tale congiuntura storica: il significante “marxismo”, infatti, veicola significati ben differenti se impiegato per conversare con studenti trotskisti tunisini o per descrivere la Rivoluzione iraniana, per esprimere solidarietà ai dissidenti del Patto di Varsavia o per analizzare le lotte delle Black Panthers contro l’ordine carcerario dell’imperialismo razziale americano[6]. Insomma, nell’eterno presente di Behrent e Zamora queste variegate sfaccettature storico-geografiche del marxismo si fondono in un monolite compatto che si può solo rigettare oppure far proprio nella sua interezza.

Qualcosa di simile accade alla discussione sulla Seconda Sinistra: dato che Pierre Rosanvallon – uno dei maggiori teorici di questa corrente – ha finito successivamente per assumere posizioni vagamente neoliberali, ne deriva che il progetto in sé fosse destinato a tale esito fin dal principio. È istruttivo a questo proposito prendere in esame il modo in cui Zamora riporta e discute il libro di André Gorz, Addio al proletariato (1980). A suo avviso, il tentativo di leggere il conflitto sociale al di là della centralità operaia di stampo fordista altro non sarebbe che un fattore di oggettivo indebolimento della sinistra classicamente intesa, e quindi necessariamente propulsore del neoliberalismo, al tempo in fasce e oggi pienamente dispiegato. Una forma esplicita di anti-comunismo, dunque, probabilmente inconsapevole ma di cui si farebbe portatore l’intero pensiero gauchiste post-’68, Foucault compreso. In effetti, se la situazione storica in cui Gorz (con molti altri) mette a punto il suo intervento fosse quella immaginata da Zamora (cioè: o si difende il welfare lavoristico o si è oggettivamente alleati del neoliberalismo), le cose starebbero in quel modo. Ma la situazione era assai diversa da questa descrizione macchiettistica: indipendentemente dalla validità delle tesi avanzate, Gorz indirizza la sua polemica ad una tipologia di marxismo incapace di pensare la lotta politica – la liberazione, l’emancipazione – oltre la forma-salario. È lo stesso Gorz a spiegarcelo in un’intervista del 2005:

Addio al proletariato non aveva niente della critica del comunismo, al contrario. Me la prendevo con i maoisti, con il loro culto primitivista di un proletariato mitico, con la loro pretesa di praticare in un paese industrializzato e urbanizzato la strategia della conquista della terra, inventata da Mao per i contadini cinesi. È anche una critica acerba della socialdemocratizzazione del capitalismo alla quale si riduceva il marxismo volgare, e della glorificazione del lavoro salariato. “Al di là del socialismo” – era il sottotitolo del libro – c’è il comunismo che ne è il compimento e, in mancanza di questo, la schifezza che abbiamo. Ma il comunismo non è la piena occupazione, né il salario per tutti; è l’eliminazione del lavoro sotto la forma socialmente e storicamente specifica che ha nel capitalismo, vale a dire del lavoro-impiego, del lavoro-merce[7].

In altri termini, il pensiero dell’autogestione è critica di un certo marxismo proprio perché quest’ultimo è percepito come blocco delle lotte sociali. Confondere, come fanno sia Behrent che Zamora, l’autogestione con il libero scambio su mercati autoregolantisi è possibile solo a condizione di astrarre la prima dal suo contesto proprio per installarla successivamente sul nostro presente, in cui il dominio del secondo segnala precisamente la sconfitta di un ciclo di conflitti attraversato anche da ipotesi autogestionarie[8]. Una sconfitta, tuttavia, non cancella un percorso storico complesso e articolato: non si tratta solo di una corretta impostazione analitica, ma anche della possibilità di riappropriarsi politicamente di frammenti di passato per attivarli oggi, per pensare e organizzare la lotta al neoliberalismo imperante. Per esempio, lo stesso Gorz in un testo del 1977 interpretava l’autogestione come punto di convergenza tra le lotte per la liberazione dal lavoro eterodiretto e il movimento ecologista[9]: considerate le affinità elettive che legano la crisi economica a quella ambientale, mi sembra che questa connessione sia tutt’altro che irrilevante per i conflitti nei quali, qui ed ora, ci troviamo coinvolti.



[1] Disponibile online (ultimo accesso 29/04/2015) sia nella versione originale francese: <http://www.revue-ballast.fr/peut-on-critiquer-foucault/>; che in versione inglese: <https://www.jacobinmag.com/2014/12/foucault-interview/>; che in versione italiana: <http://www.lavoroculturale.org/wp-content/uploads/2015/04/Si-può-criticare-Foucault.pdf>. Un buon riepilogo del dibattito susseguente, segnalato dal blog lavoroculturale.org, è disponibile online (ultimo accesso 29/04/2015): <https://itself.wordpress.com/2014/12/22/mini-series-on-foucault-and-neoliberalism-responses-to-zamora/>.

[2] Si veda la mineure del quarto numero (2001) della rivista Multitudes, disponibile online (ultimo accesso 29/04/2015): <http://www.multitudes.net/category/l-edition-papier-en-ligne/multitudes-4-mars-2001/mineure-foucault-chez-les-patrons/>.

[3] È questa la nota definizione di François Ewald, nel working paper del 2012 Becker on Ewald on Foucault on Becker. American Neoliberalism and Michel Foucault’s 1979 Birth of Biopolitics Lectures. A Conversation with Gary Becker, François Ewald, and Bernard Harcourt, disponibile online (ultimo accesso 29/04/2015): <http://www.law.uchicago.edu/Lawecon/index.html>.

[4] Il saggio di Behrent in questo volume intende mostrare come Nascita della biopolitica avanzi un «sostegno strategico del liberalismo economico» (p. 83) in quanto espressione pratica dell’anti-umanismo filosofico di Foucault. Il testo non manca di spunti speculativi di grande interesse, tuttavia mi pare opportuno segnalare che la logica storica che sottende la periodizzazione proposta viene elaborata in un precedente articolo: Accidents Happen. François Ewald, the “Antirevolutionary” Foucault, and the Intellectual Politics of the French Welfare State, in The Journal of Modern History, 82 (2010), pp. 585-624. Le seguenti considerazioni sul welfare faranno riferimento anche a questo testo. È inoltre opportuno rilevare come Behrent abbia partecipato al dibattito sollevato dall’intervista di Zamora attraverso alcuni commenti (alcuni assai articolati): <http://progressivegeographies.com/2014/12/17/foucault-and-neoliberalism-a-few-thoughts-in-response-to-the-zamora-piece-in-jacobin/> (ultimo accesso 29/04/2015).

[5] Cfr. Ph. Barnard e S. Shapiro, Editors’ Introduction to the English Edition, in F. Guéry e D. Deleule, The Productive Body, Zero Books, Alresford 2014.

[6] Cfr. A. Toscano, What Is Capitalist Power? Reflections on Truth and Juridical Forms, in S. Fuggle, Y. Lanci e M. Tazzioli (a cura di), Foucault and the History of Our Present, Palgrave Macmillan, London 2015.

[7] A. Gorz, L’ecologia politica, un’etica della liberazione, in Ecologica, Jaca Book, Milano 2009.

[8] Sulle teorie dell’autogestione in Francia si veda Y. Bourdet, Teoria politica dell’autogestione, Sapere, Roma 1977. L’Introduzione di Michele La Rosa a questo volume avanza interessanti considerazioni sul dibattito italiano attorno a questo tema.

[9] Cfr. A. Gorz, Ecologia e libertà, Orthotes, Napoli-Salerno 2015.

 
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