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Foucaultian Perspectives is a new section which aims to problematize, from a Foucaultian point of view, books that are neither by Foucault nor on Foucault. Therefore, the short papers and forums on these texts are not reviews in the strict sense of the term (since reviews consider a book in all its aspects and do not necessarily read it from an external perspective). They rather aim at establishing a critical tension between Foucault’s thought and a series of materials which are different from it in several respects. We hope that this encounter could generate new ways of questioning the books discussed here, as well as Foucault’s thought itself.


Emanuele Leonardi

Radiografia genealogica dell’ homo neoliberalis

Consolidamento ed estensione dell’apparato analitico foucaultiano ne La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi, Roma 2013, 512 p.), di Pierre Dardot e Christian Laval


Per introdurre al meglio una discussione sul ponderoso volume dato alle stampe da Pierre Dardot e Christian Laval (La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013) riteniamo occorra tener fermo un punto di partenza importante: il testo in questione si pone – per lo studioso interessato all’analisi foucaultiana della coppia concettuale biopolitica/governamentalità – semplicemente come imprescindibile. Esso, infatti, può intendersi come un acuto, ricco ed erudito commentario al corso tenuto da Foucault al Collège de France nel 1978-1979 e intitolato Nascita della biopolitica. Di un tale commentario si sentiva il bisogno per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo perché, trattandosi di un corso non destinato alla pubblicazione, Nascita della biopolitica si presenta come un’impresa frammentaria al cui solido impianto logico non sempre corrisponde l’usuale rigore foucaultiano nell’uso delle fonti – meglio: nella formulazione dei criteri che presiedono alla selezione delle fonti. In secondo luogo, la traduzione del libro di Dardot e Laval va salutata con gratitudine poiché, precisando minuziosamente i limiti analitici della governamentalità biopolitica, si riduce l’elasticità semantica di tale concetto, disinnescando una certa confusione che aveva finito per renderlo una sorta di nozione passepartout le cui frontiere di senso si modificavano a seconda del contesto di applicazione.

In ultima istanza, La nuova ragione del mondo integra e consolida la ricerca foucaultiana in due modi: attraverso un dettagliato approfondimento dei dibattiti economici e filosofici che danno consistenza al concetto di liberismo; per mezzo di una altrettanto dettagliata disamina delle faglie teoriche che rendono il neoliberalismo una nebulosa tutt’altro che coerente, eppure efficace. Inoltre, ci pare che la terza parte del volume sappia andare oltre Foucault (ma sempre con Foucault) nel delineare un’analisi critica della governamentalità neoliberale nell’epoca della finanziarizzazione capitalistica e della crisi del fordismo.

Partiamo dal principio: com’è noto, Foucault legge l’emergere del liberalismo (coevo a quello della biopolitica), concepito in termini di razionalità politica piuttosto che in qualità di teoria economica, come un passaggio dalla centralità dei limiti invalicabili, legali ed esteriori, al potere assoluto del sovrano alla crescente importanza di un’arte di governo basata sull’economia politica. In altre parole, il liberalismo è visto come critica permanente del potere sovrano (attraverso il mercato). Era stato rilevato – per esempio da Adelino Zanini[1] – come l’impostazione foucaultiana tendesse a conferire al liberismo una coerenza interna che, nelle pratiche come nelle elaborazioni teoriche, non si sarebbe data. Il grande merito di Dardot e Laval consiste precisamente in questo: essi mostrano che la continuità logica del liberalismo come produzione di limiti mercatistici al potere non solo non neghi, ma venga anzi arricchita dal suo – a tratti contraddittorio – spessore storico. In altre parole, se da un lato la concezione dell’uomo interessato come portatore naturale di un insieme di limiti al sovrano definisce qualcosa come un liberalismo classico, dall’altro lato questo stesso liberalismo, «lungi dall’esser emerso tutto d’un pezzo da opere perfettamente univoche, è in realtà fin dalle origini attraversato da tutte quelle tensioni e divisioni che più tardi si trasformeranno in opposizione aperta sul terreno ideologico, morale, politico o ancora scientifico» (p. 34). Un liberalismo sfaccettato e plurale, dunque: si tratta di un affresco puntuale, raffinato ed ampiamente condivisibile, il cui unico difetto sta forse nel poco spazio dedicato al «nuovo liberalismo» di Keynes, emerso «al crocevia tra radicalismo [inglese] e socialismo» (p. 157)[2].

Da questa flebile coesistenza di uno e molteplice si discosta in modo radicale – secondo Dardot e Laval – il neoliberalismo. Esso rappresenta una cesura netta rispetto al suo predecessore. Foucault era stato meno categorico: a suo dire, ciò che nel passaggio da liberalismo a neoliberalismo non cambia è la funzione del mercato come luogo di veridizione. Quindi, anche il neoliberalismo mira alla costruzione di una naturalità economica attivata da un regime biopolitico di verità. In altri termini, l’invariante formale della governamentalità è la produzione di limiti al potere tramite il mercato. Ciò che, al contrario, cambia radicalmente è la specifica modalità di questa produzione, la sua contingenza storica. Nell’ambito del liberalismo la naturalità del mercato è centrata attorno alla nozione di scambio e, come tale, rimane ancora ben distinta dall’artificialità dei flussi di denaro, merci e forza lavoro che si suppone mobiliti. Diversamente, in un contesto neoliberale, la naturalità del mercato è direttamente creata in accordo con l’artificiale principio di formalizzazione rappresentato dalla concorrenza. In breve, la natura stessa deve essere artificialmente fabbricata affinché la struttura formale della concorrenza economica possa propriamente funzionare. Per questa ragione i pensatori neoliberali hanno potuto accusare i loro predecessori di «ingenuità naturalista» (NB, p. 111). Enfatizzando esplicitamente il lato della discontinuità, Dardot e Laval mettono a fuoco un tema centrale della governamentalità neoliberale, cioè quello dell’adattamento[3]. Richiamandosi al pensiero di Walter Lippmann – cui a Parigi sarà dedicato, dal 26 al 30 agosto 1938, un convegno di fondamentale importanza per lo sviluppo della riflessione neoliberale – gli autori delineano i tratti di un neoliberalismo al cui fondamento sta la necessità da parte di esseri umani e istituzioni di conformarsi senza posa ad una dinamica economica intrinsecamente variabile in quanto modellata sul principio formale della concorrenza.

Questa attenzione alla dimensione di razionalità complessiva che contraddistingue il neoliberalismo permette a Dardot e Laval di smarcarsi da alcune semplificazioni marxiste – per le quali la grande svolta non sarebbe altro che un ricettacolo di interventi di politica economica messi a punto a Chicago – e di inscrivere il suo sviluppo all’interno delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Scrivono i due autori in un passaggio assai significativo: «Il neoliberalismo si basa sulla duplice constatazione che il capitalismo ha aperto un periodo di rivoluzione permanente dell’ordine economico, da un lato, ma che, dall’altro, gli uomini non si adattano spontaneamente a tale ordine mutevole di mercato, essendo nati in un altro mondo. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale, sociale e complessiva. Ma l’adattamento dell’ordine sociale alla divisione del lavoro è un compito immenso, che consiste [secondo l’espressione di Walter Lippmann] nel “trovare un nuovo sistema di vita per tutta l’umanità”» (p. 187).

La svolta neoliberale, che si dipana teoricamente tra Lippmann e von Hayek e politicamente tra Thatcher e Reagan, ha risvolti profondissimi al livello della produzione di soggettività: è ciò che gli autori indagano nella terza parte del volume, sulla scorta di una risoluta attitudine genealogica. Si parte dal seguente presupposto: «la razionalità neoliberista spinge l’io a mutare per rinforzarsi e sopravvivere nella competizione» (p. 424). Ne segue una vera e propria radiografia dell’homo neoliberalis – definito “neo-soggetto” –, una sua minuziosa disamina che spazia dall’incorporazione della logica dello shareholder value ai risvolti socio-clinici dell’imprenditore di se stesso. Si tratta di un’applicazione esemplare dell’approccio foucaultiano alle criticità del presente. Come si diceva, con Foucault oltre Foucault: non a caso, è su questo piano che l’analisi di Dardot e Laval incrocia ed arricchisce sia le ricerche post-operaiste sulla finanziarizzazione come biopotere[4], sia le ricerche si stampo psicoanalitico sull’evaporazione del Padre[5].

Vorremmo concludere con un ulteriore esempio – tra i tanti possibili – dell’importanza cruciale de La nuova ragione del mondo rispetto ai campi aperti dall’elaborazione foucaultiana sulla contemporaneità: si tratta dell’analisi della green economy come elemento fondamentale delle pratiche neoliberali di governamentalità – cioè del tema che ha segnato il nostro percorso di ricerca negli ultimi anni. Per green economy si intende uno dei più rilevanti tentativi, specificamente capitalistici, di superare il crollo finanziario attraverso l’incorporazione del limite ambientale in qualità di nuovo terreno di accumulazione e valorizzazione. Ebbene, l’opportuna insistenza di Dardot e Laval sulla distanza che separa il naturalismo liberale dal radicale antinaturalismo che caratterizza la razionalità neoliberale ci permette di comprendere con maggior chiarezza i passaggi chiave che hanno permesso alla green economy di emergere e porsi come una sorta di versione aggiornata dello sviluppo sostenibile. In particolare, tale slittamento ci sembra supportare due tesi fortemente interrelate:

1) la crisi ecologica prende forma compiutamente politica, diviene cioè “pensabile” nei termini a noi usuali, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, ovvero in concomitanza non casuale con l’attraversamento di quella “soglia di modernità biologica” che segna l’emergere dell’orizzonte biopolitico descritto da Foucault;

2) sebbene la prima “fase” della governamentalità biopolitica – quella liberale – renda visibile la variegata fenomenologia della crisi ambientale, i tentativi di gestirla e regolarla politicamente appartengono compiutamente al neoliberalismo.

Si può dunque affermare che la green economy affondi le proprie radici nel terreno pratico-discorsivo delle politiche neoliberali. Più specificamente, tuttavia, questo impianto analitico consente di dar conto della dislocazione della nozione di ambiente che presiede alla nuova alleanza tra capitale e sostenibilità: mentre nel liberalismo i limiti naturali all’intervento sovrano (e artificiale) hanno lo scopo di permettere alla ricchezza sociale di circolare e crescere, nel neoliberalismo l’artificialità è direttamente applicata alla natura affinché questa possa dispiegarsi lungo le frontiere astratte della logica della concorrenza. In altre parole, se nel liberalismo la natura risulta internalizzata al fine di svolgere il ruolo di limite propulsivo dello scambio economico, nel neoliberalismo la natura viene creata artificialmente per mettere in movimento una modalità di produzione della ricchezza omologa alla competizione economica. Insomma, assistiamo al passaggio da un ambiente come limite del processo di valorizzazione ad un ambiente come suo cruciale elemento: i rapporti di sfruttamento non si dispiegano più soltanto sulla natura; piuttosto, le passano attraverso[6].



[1] A. Zanini, L'ordine del discorso economico, Ombre corte, Verona 2010. Si veda anche la recensione di Zanini al libro di Dardot e Laval, laddove si obietta agli autori che «c’è un vizio di origine storiograficamente importante, seppur nobilissimo, nell'interpretazione di uno Smith “liberale”», disponibile online (ultimo accesso 4/5/2014): http://www.deriveapprodi.org/wp-content/uploads/2013/11/Alias_29_nov_2013_1-5.pdf.

[2] In effetti, un’analisi compiutamente biopolitica delle vicende del welfare state attende ancora di essere redatta.

[3] Si tratta di un aspetto richiamato anche da Paolo Napoli nella sua preziosa Prefazione all’edizione italiana. Egli elenca con grande forza critica una serie di concetti tanto evocativi quanto precisi nell'isolare il cuore governamentale del neoliberalismo: tra gli altri, «adattamento primordiale», «esercizio autocorrettivo strutturale», «cifra autoriflessiva permanente» (p. iii-iv).

[4] Si vedano i contributi di Christian Marazzi (La violenza del capitalismo finanziario) e di Stefano Lucarelli (Finanziarizzazione come biopotere) contenuti in A. Fumagalli e S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell'economia globale, Ombre corte, Verona 2009.

[5] Si veda ad esempio F. Chicchi, Soggettività smarrita, Bruno Mondadori, Milano 2013.

[6] Per un approfondimento di questo percorso di ricerca, ci permettiamo di rinviare ai seguenti contributi: E. Leonardi, Per una critica della green economy neoliberale: una lettura foucaultiana della crisi ecologica globale, in «Culture della sostenibilità», 9, pp. 30-46; e Biopolitics of Climate Change, disponibile online: https://unibg.academia.edu/EmanueleLeonardi.

 
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