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In seguito alla lettura della recensione del suo saggio Le parole e le immagini, Miriam Iacomini ci ha gentilmente inviato un testo che riprende e problematizza alcuni spunti di riflessione evidenziati da Diego Melegari. Nello spirito del nostro portale, che mira ad essere una piattaforma di confronto e discussione tra studiosi, e in accordo con l’autore della recensione, abbiamo deciso con piacere di pubblicarla.


 

Miriam Iacomini

In risposta a Letteratura, arte e fragilità dell’oggi

Risposta alla recensione di Diego Melegari, Letteratura, arte e fragilità dell'oggi da parte dell'autrice di Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008 (288 p.)

 

Volendo rispondere ad alcune osservazioni che Diego Melegari ha posto nel recensire il testo Le parole e le immagini, volevo innanzitutto ringraziarlo. Non solo perché ha preso in considerazione il mio libro, ma soprattutto perché con il suo intervento ha dimostrato un notevole acume critico nel saper individuare alcuni di quei nuclei teorici che mi hanno più volte impensierito. Credo infatti che Melegari abbia posto delle questioni proprio su quegli snodi che, suscettibili di diversa interpretazione, mi hanno messa di fronte all’esigenza di dover scegliere un orizzonte all’interno del quale organizzare la mole del lavoro foucaultiano.

Partiamo dalla prima sollecitazione che Melegari mi propone.

Il mio lavoro di ricerca prende in considerazione la riflessione che Foucault dedica durante gli anni ‘60 alla letteratura e alla pittura. È un argomento evidentemente molto vasto che può essere approfondito secondo diverse prospettive. Si può scegliere di adottare uno sguardo diacronico e collegare tali ricerche alla riflessione dell’ultimo Foucault; ma si può anche tentare il non facile reperimento dei riferimenti teorici e critici a partire dai quali Foucault orienta le proprie posizioni. Altra possibilità, infine, è quella di porre in relazione le non poche considerazioni degli anni ‘60 sulla pittura e la letteratura con il meticoloso lavoro di ricostruzione archeologica delle pratiche del sapere che il filosofo porta avanti per un intero decennio.

All’interno di quest’ultimo contesto di ricerca, che è esattamente quello che ho scelto, ho cercato di individuare il modo in cui letteratura e pittura interagiscono con la ricostruzione delle configurazioni originali del sapere a partire dall’âge classique fino ad arrivare alla modernità e al suo disfacimento. La mia ipotesi è che mentre la pittura, installandosi nel presente, è in grado di mostrare il diagramma di stato di un’epoca, la letteratura posta negli interstizi epistemici, zona liminare tanto cara a Foucault, rende conto del venir meno del quadro di riferimento. Pittura e letteratura quindi si alternano ritmicamente all’interno della scansione cronologia delle pratiche del sapere: da un lato Cervantes, Sade e Roussel segnano rispettivamente il passaggio alla classicità, alla modernità e alla contemporaneità; dall’altro Velázquez, Manet e Magritte si collocano esattamente all’interno del loro contesto archeologico rendendone manifeste le strutture che regolano le forme del sapere.

Ma, chiede Melegari, pittura e letteratura si alternano o «si avvolgono l’un l’altra e cessano di segnare due funzioni distinte […]?». La domanda di Melegari viene posta a proposito dell’alternanza tra Roussel e Magritte in riferimento all’epoca contemporanea. Come noto, non esiste una ricostruzione archeologica del sapere relativa alla “contemporaneità”, epoca che, successiva alla modernità, smonta definitivamente la nozione di soggetto. Proprio in virtù di questa assenza, e a causa «dell’inevitabile paradossalità di descrivere la nostra attualità», le opere dei due autori, sostiene Melegari, non possono che essere utilizzate avvolgendosi in un continuo gioco di rimandi. Indubbiamente, c’è un proficuo rimbalzo tra l’interpretazione di Roussel e Magritte che, utile proprio a caratterizzare l’epoca della morte del’uomo, ci restituisce delle informazioni significative sulla contemporaneità. Però, non credo che si possa sostenere l’ipotesi dell’avviluppamento che dissolve le specifiche peculiarità del ruolo svolto da letteratura e pittura nella ricostruzione archeologica del sapere.

Nonostante l’opportuna sollecitazione di Melegari, continuo a sostenere questa tesi per due ragioni. Innanzitutto, perché la pittura è legata all’esercizio dello sguardo, che, pensiamo per un attimo a Nascita della clinica il cui sottotitolo non a caso è Un’archeologia dello sguardo medico, definisce lo spazio in cui appare il significato delle parole. Lo sguardo muta la struttura di ciò che va visto e automaticamente delimita l’organizzazione in cui le cose si danno al sapere. Quindi, l’uso dello sguardo, teorizzato da Foucault al di là di una dimensione percettivo-fenomenologica, rinvia «ad uno stile di totalizzazione del sapere che comporta nuove pratiche, nuovi discorsi, nuove regole» (D. Defert, Vedere o sapere, in M. Cometa, S. Vaccaro, Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2008, p. 14). Ora, la pittura, proprio perché arte legata all’esercizio della visione, risponde a questa proprietà dello sguardo, mostrando la configurazione del sapere che all’interno del tableau espone e al contempo spazializza. Ne consegue che il tipo di sguardo che viene sollecitato dal quadro ottiene un duplice e all’apparenza contraddittorio effetto: cattura dicibile e visibile in uno stesso contesto archeologico ma, svelando «l’eterna menzogna o utopia di una perfetta coincidenza di visibile e dicibile», ne smonta la reciprocità (M. Cometa, Modi dell’ékphrasis in Foucault, in M. Cometa, S. Vaccaro, Lo sguardo di Foucault, cit., p. 43).

L’altra ragione che mi spinge a mantenere ferma l’alternanza tra pittura e letteratura intesa come ritmo che restituisce il percorso archeologico, è legata al fatto che durante le mie analisi ho preso in considerazione solo determinati autori e determinate opere. È questo un elemento importante, perché è noto come Foucault negli anni ‘60 abbia molto lavorato nell’ambito della critica letteraria orientando la propria riflessione ben oltre le esigenze dell’archeologia. Quindi, se si prescinde dall’orizzonte specifico della critica letteraria – e questa è senz’altro una posizione coerente rispetto all’ipotesi iniziale di lavorare sul rapporto tra pittura, letteratura e archeologia – è facilmente dimostrabile come sia lo stesso Foucault a presentare il Don Chisciotte di Cervantes e La Nouvelle Justine di Sade come le opere che tracciano il limite. Esse infatti danno conto del passaggio, altrimenti non sintetizzabile dalla riflessione filosofica, da un’epoca all’altra. Don Chisciotte, uomo del Rinascimento che rincorre analogie, similitudine e somiglianze, riceve dal mondo, ormai riorganizzato secondo la legge della Rappresentazione, la sua verità nell’essere personaggio delirante e folle. Simmetricamente, i protagonisti di Sade dall’altro capo della classicità si pongono nella zona liminare che preannuncia l’avvento della modernità: se Juliette, donna dissoluta e dai costumi ambigui, rispecchia interamente la rappresentazione poco edificante che l’Altro ne ha, Justine, donna virtuosa e onesta, subisce le più atroci angherie perché tra l’oggetto della rappresentazione (Justine) e il soggetto interpretante (l’Altro) si sovrappone il desiderio, retromondo inaccessibile al senso dal quale dipende la rappresentazione. E ben si sa come la domanda sull’origine della rappresentazione sia esattamente l’interrogativo che, in Le parole e le cose, definisce la modernità. «Forse», scrive esplicitamente Foucault, «Justine e Juliette, di fronte al nascere della cultura moderna, sono nella stessa posizione del Don Chisciotte tra Rinascimento e classicismo» (M. Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it. B.U.R., Milano 1996, p. 230). La letteratura, quindi, nell’opera del ‘66, viene utilizzata proprio come emblema dello slittamento di senso da un’epoca all’altra.

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