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       mf : All’inizio del vostro libro, voi parlate delle due grandi forme che la disobbedienza civile ha assunto nel corso della propria storia: se, ai tempi di Emerson e Thoreau, essa era intesa come « l’espressione sovrana del desiderio perfezionista di essere in accordo con la parte migliore di se stessi », ormai essa indica piuttosto « un gesto politico » che conduce degli individui ad associarsi per contestare la legittimità di certe disposizioni legislative o regolamentari, rifiutando di sottomettervisi. Tuttavia, voi affermate anche che, nelle democrazie moderne, queste due modalità della disobbedienza « non hanno nulla di antinomico » – un’affermazione che ci pare porre in modo acuto la questione (centrale anche nell’ultimo Foucault) del rapporto tra la dimensione etica e la dimensione politica delle pratiche di resistenza. Come concepite questo rapporto? A vostro avviso, per accorgersi delle ingiustizie e avere il coraggio di opporsi alla logica governamentale contemporanea, è sempre necessario provare un desiderio perfezionista? Insomma, è possibile separare le motivazioni “etiche” che ci spingono a disobbedire, dall’azione “politica” concreta di disobbedienza?

       S. Laugier, A. Ogien : Siamo partiti, sul piano filosofico, dall’importanza in Wittgenstein, come in Emerson, dell’idea di voce e di rivendicazione (claim). Quando Wittgenstein dice che gli esseri umani « si accordano nel linguaggio che utilizzano », egli fa appello ad un accordo che è fondato esclusivamente sulla validità di una voce. In Must We Mean What We Say?[1], Cavell – riprendendo Kant – definisce la razionalità del ricorso al linguaggio ordinario, sul modello del giudizio estetico, come rivendicazione di una “voce universale”: fondarmi su me stesso per dire ciò che noi diciamo. Questa rivendicazione è ciò che definisce l’accordo, e la comunità è dunque per definizione rivendicata, non fondatrice. Sono io – la mia voce – che reclamo la comunità, e non l’inverso. Trovare la mia voce non consiste nel trovare un accordo con tutti, ma nell’effettuare una rivendicazione. Possiamo così dire che in Cavell e Wittgenstein la comunità non può esistere se non nella sua costituzione attraverso la rivendicazione individuale e il riconoscimento di quella dell’altro. Non può quindi essere presupposta, e non avrebbe alcun senso risolvere il disaccordo morale o il conflitto politico ricorrendo a essa. Non si tratta di una soluzione al problema della moralità, quanto piuttosto di uno slittamento di questo problema, e del fondamento dell’accordo comunitario, verso la conoscenza e la rivendicazione di sé, e verso il perfezionismo.

La voce è forzatamente dissidente, contro il conformismo. Si preferirà qui l’idea di disobbedienza a quella di emancipazione. Il dissenso è caratteristico della democrazia, nonché del tipo di conformismo che la democrazia produce, quel conformismo deplorato da Emerson quando rivendica la « Self-Reliance ». Pensare la disobbedienza in democrazia significa pensare il capovolgimento del conformismo. Essa è legata alla definizione stessa di una democrazia, di un governo del popolo, ovvero da parte del popolo, come diceva molto chiaramente la Dichiarazione d’Indipendenza americana (alla quale Emerson e Thoreau volevano essere fedeli contro le derive della Costituzione, e in seguito alla sua attuazione jacksoniana): un buon governo democratico è il governo che è il nostro, il mio – che mi esprime e che posso esprimere. La questione della democrazia è per l’appunto quella della voce. Devo avere una voce nella mia storia, e riconoscermi in ciò che viene detto o mostrato dalla mia società, e così, in qualche modo, affidarle la mia voce, accettare che essa parli a mio nome. La disobbedienza è la soluzione che s’impone quando vi è dissonanza: non mi riconosco più, in un discorso che suona falso, di cui ciascuno di noi può fare l’esperienza quotidiana (anche per se stesso, poiché secondo Emerson il conformismo che dobbiamo innanzitutto combattere è il nostro).

In questo approccio, la questione della democrazia è linguistica: diviene quella dell’espressione. L’illusione è rappresentata dal credere che, se la mia società è ragionevolmente libera e democratica, il mio dissenso non debba esprimersi in forma radicale: come se avessi minimamente acconsentito alla società, in modo che il mio disaccordo possa essere ragionevolmente formulato in tale quadro. Ma quale consenso avrei dato, io? La democrazia radicale vuole continuare la conversazione proprio perché essa ritiene che io non abbia dato il mio consenso: non a tutto. La critica radicale è alla base stessa della democrazia, non costituisce una sua degenerazione o una debolezza interna. L’idea stessa di disobbedienza civile è innanzitutto un approccio americano della democrazia, nell’epoca in cui la democrazia cerca proprio là di re-inventarsi, in un contesto caratterizzato dalla delusione per una democrazia divenuta conformista e consumista. La disobbedienza civile è tuttavia caratteristica dei momenti in cui si dispera della democrazia, quando essa degenera in conformismo, in discorso vuoto o addirittura ripugnante, come sta avvenendo nella Francia di Sarkozy. Questa strada del dissenso è particolarmente importante nella tradizione culturale americana, e l’abbiamo ritrovata nei movimenti minoritari d’opposizione a Bush. Possiamo perfino immaginare che essa, con un colpo di coda, abbia portato al cambiamento politico e al ritorno di un potere democratico, combinato – nel paese della schiavitù – con il segnale importante dato dall’elezione di un presidente per metà di colore.

Emerson e Thoreau rifiutavano la società del loro tempo per le stesse ragioni per cui l’America aveva voluto l’indipendenza e rivendicato i diritti alla libertà, all’uguaglianza e alla ricerca della felicità. Prendevano alla lettera la Dichiarazione d’Indipendenza: « I governi sono istituiti tra gli uomini per garantire questi diritti, e il loro giusto potere emana dal consenso dei governati ». È qui e ora, ogni giorno, che si definisce il mio assenso alla mia società; non l’ho dato, in qualche modo, una volta per tutte. Non che il mio assenso sia misurato o condizionale: esso è piuttosto, e costantemente, in discussione, o in conversazione – è attraversato dal dissenso. Thoreau, in Civil Disobedience[2], dichiara: « Desidero rifiutare la mia fedeltà allo Stato, ritirarmene in maniera effettiva ». Se lo Stato rifiuta di sciogliere la propria unione con il proprietario di schiavi, allora « che ciascun abitante dello Stato sciolga la propria unione con esso (lo Stato) ». « Non posso riconoscere questo governo come mio, poiché è anche quello dello schiavo », dice Thoreau. Noi siamo tutti schiavi e la nostra parola suona falsa. Piuttosto che fare delle rivendicazioni al posto degli schiavi, e mantenerli così nel silenzio, Emerson e Thoreau preferiscono rivendicare i soli diritti che possano difendere – i propri. Il proprio diritto ad avere un governo che parli e agisca a loro nome, un governo che essi riconoscano e al quale possano affidare la loro voce.

Si comprende allora quale sia l’attualità della fiducia in se stessi contro il conformismo, e dello sconforto democratico. Il modello della disobbedienza riappare come manifestazione non di rivolta, ma di speranza, contro tutto questo sconforto.


[1] S. Cavell, Must We Mean What We Say?, Cambridge University Press, Cambridge 1969.

[2] H.D. Thoreau, Civil Disobedience [1849], http://thoreau.eserver.org/civil.html.

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