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Bruno Moroncini

Risposte al forum "Letteratura e arte in Foucault"


       Nella produzione degli anni Sessanta Foucault dedica molto spazio alla riflessione su opere e autori sia nei testi principali che in quelli d’occasione. Si pensi, per esempio, alle esemplari pagine dedicate a Cervantes e Velázquez ne Le parole e le cose, oppure ai numerosi riferimenti ad autori come Artaud, Nerval, Mallarmé e Sade presenti in Storia della follia, opera complessa e ricca in cui non mancano richiami più che significativi a pittori come Van Gogh, Bosch e Dürer. Inoltre, tutto il lavoro degli anni Sessanta è candenzato da un significativo numero di saggi di critica letteraria apparsi nelle riviste «Tel Quel» e «Critique», e dalla pubblicazione di due importanti monografie: una dedicata a Roussel e l’altra a Magritte. Infine, tra i vari dibattiti e conferenze cui Foucault ha partecipato, è opportuno ricordare da un lato l’intervento su Manet, già pubblicato in Italia, e, dall’altro, quello dedicato ai rapporti tra linguaggio e letteratura di prossima pubblicazione in Francia, ma già apparso in una edizione spagnola (Michel Foucault, Langage et Littérature, Saint-Luis, Belgique, 1964, inedito, consultabile presso l’IMEC, Fonds Foucault,  DI* ; tr. es. De lenguaje y literature, Ediciones Paidòs, Barcelone 1996, pp. 63-106).

       Considerando tutta questa mole di lavoro, secondo lei è possibile parlare di una dimensione estetica nel pensiero foucaultiano?

B. Moroncini: Di un’estetica in senso proprio a proposito di Foucault non credo si possa parlare: né nel senso affermatosi a partire dalla cultura filosofica dell’idealismo tedesco di una scienza teoretica del bello né in quello precedente, settecentesco, e oggi ripreso per esempio da Maurizio Ferraris, di una critica del gusto intesa essenzialmente come primato della percezione se non della sensazione, sebbene le analisi sul quadro di Magritte Questa non è una pipa e quelle sulla pittura di Manet abbiano molti punti in comune con il testo di Deleuze dedicato a Francis Bacon e intitolato non a caso Logica della sensazione. Diciamo allora che è con la tesi di un’ ‘estetica razionale’ che Foucault non sembra avere nessun rapporto, mentre mostra al contrario un grande interesse nei confronti degli aspetti materiali della pittura - ad esempio la messa in primo piano della natura del supporto, la tela, nella produzione di Manet da cui derivano pratiche del disegno, uso del colore e differenze nelle fonti di emissione della luce nuove e rivoluzionarie.

Si potrebbe dire che Foucault è più interessato alle poetiche (prendendo il termine in senso lato e attribuendolo sia alla letteratura e alla poesia che alle arti figurative), cioè a queste vere e proprie ‘istruzioni per l’uso’ ricavabili sia dalla riflessione stessa degli autori sulla propria pratica che da quella degli interpreti. D’altronde, fino allo spartiacque rappresentato dalla kantiana Critica del giudizio, il campo di ciò che chiamiamo l’estetica si divideva fra le poetiche dal punto di vista della produzione e le analisi del gusto da quello della ricezione e, per quanto riguarda l’insieme di ciò che si definisce letteratura, dall’arte del discorso. Poiché concordo con quanto sostiene Gabriele Frasca sulla nascita recente, sette-ottocentesca, della ‘letteratura’ come sistema ideologico a sostegno della borghesia, e sul fatto che si dovrebbe ritornare a parlare dell’arte del discorso quando ci si interroga, sia dal punto di vista teorico che da quello storico e critico, sulla produzione poetica e prosastica, azzarderei l’ipotesi che le pratiche foucaultiane, siano esse archeologiche e/o genealogiche, possano essere rubricate come variazioni dell’antica e nobile arte del discorso sia all’epoca degli ‘scritti letterari’ che in quella successiva, dove l’interesse per il discorso si concentra sulle interdizioni che lo fondano e sulle partizioni che produce.

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       In modo sintetico e generale si può affermare che la letteratura rappresenta per Foucault il luogo ambiguo e sempre mutevole in cui si situa l’incerto confine che separa finzione e realtà, sonno e veglia, follia e ragione. La letteratura, infatti, non viene considerata come una delle possibili forme di espressione della propria interiorità, ma come una vera e propria ‘esperienza-limite’ attraverso la quale dall’interno di un paradigma si procede verso l’esterno. Ed è proprio in virtù di questo movimento che, producendo oltre il Medesimo quell’impossibile-da-pensare che connota la pura esteriorità, si compie un processo di emancipazione rispetto a se stessi. L’esperienza-limite si identifica, scrive Foucault, con il “concetto di strappare il soggetto a se stesso, facendo in modo che non sia più tale, o che sia completamente altro da sé, che giunga al suo annullamento, alla sua dissociazione. È questa impresa de-soggettivante, l’idea di una ‘esperienza limite’ che strappa il soggetto a se stesso” (D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 1999, pp. 18-19) a interessare e guidare la riflessione foucaultiana a partire dagli anni Sessanta, proiettandolo ben oltre gli iniziali studi di stampo fenomenologico.

       Ora, se si considera il fatto che a partire da L'Ordine del discorso gli interventi foucaultiani sulla letteratura sono drasticamente ridotti, e che l’interesse di Foucault verso i processi di de-soggettivazione non viene mai meno, quali sono, secondo lei, i luoghi in cui tale tematica viene ripresa e affrontata? e in che modo riemerge nelle argomentazioni e nelle rielaborazioni teoriche, politiche ed etiche degli anni Settanta e Ottanta?

B. Moroncini: Per rispondere a questa domanda è necessario prima affrontare la questione del ruolo della ‘letteratura’ nel primo Foucault. Mi permetto a questo proposito di fare un’ipotesi ancora più azzardata della precedente: a me pare che tutta la produzione di Foucault fino all’Ordine del discorso si debba porre sotto le insegne della versione moderna di ciò che egli stesso definisce la ‘finzione occidentale’, vale a dire la letteratura come arte del discorso. Arriverei addirittura a pensare che l’intento di Foucault anche quando scriveva La storia della follia e Le parole e le cose era quello di proseguire se non di eguagliare, disponendosi nella loro eco, le pratiche di scrittura di autori come Bataille, Blanchot, Artaud, Roussel. L’uso del termine finzione per designare la letteratura rinvia molto probabilmente a Borges, ma secondo me c’è in esso l’eco di Bentham e di Lacan: di Bentham perché prima di essere l’autore del Panopticon, il pensatore inglese è il fondatore della prima ontologia linguistica della filosofia moderna. Fictitious, fittizio, è per Bentham l’ordine inaugurato dal linguaggio che sostituisce le sostanze della vecchia metafisica. Di Lacan, perché proprio il Bentham della Teoria delle finzioni è uno degli autori di riferimento dello psicoanalista francese, nella misura in cui offre un fondamento filosofico alla sua teoria dell’inconscio strutturato come un linguaggio. È noto che per Foucault la ‘finzione moderna’ è quella pratica di scrittura che permette l’acceso all’opera inoperosa del linguaggio, appunto al fatto che il linguaggio è il continuo slittamento del significato sotto i significanti e lo spostamento dei significanti lungo la catena multipla dei segni. Se ciò che si sposta è secondo Lacan il desiderio, allora la ‘finzione moderna’ è l’iscrizione del desiderio, un’iscrizione che avviene via linguaggio e la cui legge è la stessa del desiderio. Ma un desiderio senza oggetto, un desiderio sottoposto alla sola legge del linguaggio, è un desiderio che gira a vuoto, un desiderio mortifero o folle. Mi chiedo allora se la prima prefazione alla Storia della follia, poi cassata da tutte le riedizioni successive perché accusata da Foucault stesso di eccesso di soggettivismo fenomenologico, non mirasse in realtà a far fuoriuscire la follia dagli ordini del discorso per riaffidarla finalmente ad un discorso del tutto coincidente col linguaggio, sottratto cioè alle partizioni, soprattutto a quella caratterizzante tutta la modernità, fra la ragione e la follia. Quell’esperienza originaria della follia non era l’esperienza della legge del linguaggio cui si accedeva attraverso la scrittura finzionale?

Forse il Foucault successivo abbandona un simile progetto: tuttavia, come sostiene Stefano Catucci, esso sembra ritornare, dopo la deviazione genealogica lungo la coppia potere/sapere, e forse anche a causa di quest’ultima, sotto la forma di una scrittura di sé legata ai temi della maîtrise e dell’estetica dell’esistenza. A patto però che dietro l’espressione ‘estetica dell’esistenza’ non sia contrabbandata nessuna forma di estetismo come se la prestazione specifica della padronanza di sé dovesse essere quella di fare della propria vita un’opera d’arte, ma indichi un processo di stilizzazione, di trasformazione della vita in forma, di una forma frutto dell’autonomia e non dell’assoggettamento.

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Per rispondere è necessario chiarire cosa significhi ‘dimensione estetica’. È noto che con il termine ‘estetica’ si intendono opzioni teoriche molto diverse fra loro: dalla teoria della sensibilità alla filosofia dell’arte, da un’analisi sistematica delle esperienze nei vari territori dell’arte fino a una critica praticata sul campo e intesa come esercizio empirico privo di teoria, se non proprio “contro” la teoria tout court. Negli scritti di Foucault non troviamo niente di tutto questo: né una teoria della sensibilità, voglio dire, né un pensiero specifico rivolto all’esperienza dell’arte, né una critica. A quanto ne so, solo in un’occasione egli nomina l’estetica per designare un’interrogazione sulla sensibilità, ma il contesto è quello di Nascita della clinica, cioè del mutamento del sapere medico e della relazione fra vedere e sapere. La medicina, d’altra parte, non è estranea alla storia dell’estetica, basterebbe citare il caso di Helmholtz, la diatriba sul presunto astigmatismo di El Greco sorta tra la fine del xix e l’inizio del xx secolo o il più recente sviluppo delle cosiddette ‘neuroestetiche’. Foucault, tuttavia, non isola l’elemento estetico, non lo individua come una dimensione a sé stante, ma lo ritiene uno dei tanti strati che compongono l’episteme di un’epoca. L’arte, dalla letteratura alla pittura, è per lui una fonte, un documento da collocare accanto ad altri – testi filosofici, resoconti medici, rapporti di polizia etc. – nell’archivio di un periodo storico. C’è una differenza in realtà, alla quale accenno soltanto, e che riguarda la resistenza opposta dall’arte al tentativo di essere integralmente storicizzata, ovvero la sua capacità di parlare attraverso le epoche collocandosi però anche al presente, non solo in una distanza temporale. Ad ogni modo basta vedere il modo in cui Foucault usa il riferimento alla pittura e alla letteratura, per esempio in Le parole e le cose, per capire quanto poco l’ambito estetico si distacchi per lui dagli altri generi della documentalità: le opere ci mettono di fronte un paradigma dell’Ordine più generale che caratterizza il sistema di sapere al quale appartengono e del quale rappresentano un sensore. Semmai, proprio perché collocate al limite delle pratiche interne a quell’Ordine, sono i prodotti che maggiormente tendono ad affacciarsi sul bordo e a farcelo intravedere, quindi sono opere permeabili a uno scambio con il loro “altro” e meglio di altre, perciò, mostrano le lacune e la provvisorietà dell’Ordine. Quando la sua attenzione si sposta dal campo del sapere a quello dei dispositivi sapere-potere, lo speciale rilievo concesso alle opere d’arte viene meno, sostituito da un’altra qualità: più che l’esemplarità, conta allora per Foucault il posizionamento di un prodotto nelle relazioni di forza del potere. Allora però l’arte, per esempio la letteratura, diventa solo una delle forme di un più generale gioco strategico nei dispositivi del potere: la scrittura.

                        Sul fatto che i suoi scritti sulla letteratura e sulla pittura non possano essere ricondotti al genere della ‘critica’ credo non ci sia bisogno di soffermarsi. Però è vero che una ‘dimensione estetica’ agisce con molta forza, nel lavoro di Foucault, senza essere da lui riconosciuta e isolata, almeno non negli anni Sessanta. Mi riferisco al tema dello sguardo e all’importanza che hanno, nei suoi scritti, le descrizioni di scene presentate quasi come istantanee del momento storico da mettere sotto osservazione, si tratti della Nave dei Folli o di Borges, del supplizio con cui si apre Sorvegliare e punire o della descrizione dell’elefante con la quale inaugurava, nel 1981, il corso Subjectivité et vérité. La maniera in cui Foucault pensa e riflette ha uno spessore narrativo e visivo che gli rende più vicini i campi dell’arte, dai quali attinge e ai quali restituisce la pratica del guardare e del pensare ‘diversamente’. Nella conversazione con Duccio Trombadori, se non sbaglio, disse che i suoi stessi libri potevano essere considerati esperienze, riuscite se chi vi era passato attraverso se ne sentiva in qualche misura cambiato. Si capisce così come la sua stessa filosofia sia proiettata verso una dimensione estetica, essendo intesa non come un sapere che voglia trasmettere o elaborare specifiche verità, ma come una pratica, un esercizio critico che trasforma il soggetto ed esplicita la cornice in cui si svolge il suo gioco. La mia impressione è che questa possibilità critica della filosofia si apra, per Foucault, in forza di uno scarto dalla presa del potere che ha tutto lo spessore della consistenza estetica: uno scarto che riguarda il corpo, dunque il lato sensibile dell’esteticità, lo sguardo, dunque l’attività percettiva, e infine il delinearsi di un intero orizzonte d’esperienza, dunque qualcosa di simile a ciò che per Kant era la facoltà di giudizio. Però in tutti questi casi l’estetica rimane una componente operativa del suo pensiero, quasi un ‘saper fare’ del pensiero critico, ma non uno degli attrezzi da lui appositamente riposti nella sua celebre cassetta.
 
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