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Mariapaola Fimiani

Risposte all'intervista doppia "Tecniche del corpo e tecniche di sé"


       Tanto le tecniche “disciplinari” che Michel Foucault ha studiato, per esempio, in Surveiller et punir, quanto le “tecniche del corpo”, di cui ha parlato Marcel Mauss, sembrano avere in comune il fatto di applicarsi su corpi individuali per creare delle disposizioni temporalmente durevoli, attraverso procedure specifiche di dressage. Tali tecniche, impiegate tramite una vasta gamma di schemi di ripetizione, appaiono rivestire un ruolo importante nella produzione/riproduzione delle relazioni di potere che permeano un determinato ordine sociale e culturale. Lei crede ci possa essere spazio per tentare un raffronto tra le tecniche disciplinari di Foucault e le tecniche del corpo di Mauss? Quali vantaggi potrebbero derivare da simile accostamento, e quali limiti (concettuali e metodologici) vanno comunque posti ad esso?

M. Fimiani: È possibile pensare a percorsi paralleli per due pensatori, come Marcel Mauss e Michel Foucault, che, in contesti diversi, hanno respinto ogni mentalismo o soggettivismo sovrano, spostando la questione dell’umano nel quadro della centralità del vitale e del corporeo, oltre che del loro divenire e del loro prodursi come effetto di processi storico-reali. In Mauss e Foucault, infatti, i corpi non hanno esistenza se non nel traversamento di codici, normazioni, strumenti, simboli e verità collettive.

Certo, nelle maussiane techniques du corps il radicamento socio-culturale è condizione dell’esercizio attivo di un agente, nelle tesi foucaultiane i sistemi e i dispositivi sovra/infra-corporali sembrano innanzitutto adattare la vita alla passività e alla narcosi. E ciò accade anche quando la penetrazione dell’esterno nell’interno, o del processo nel vivente, non induce “disposizioni durevoli”, ma asseconda l’irripetibilità dell’evento vitale o corporeo. Ed è su quest’ultimo punto che vorrei azzardare un’ipotesi di confronto.

Credo che Mauss e Foucault provino a praticare una critica alla logica appropriativa, dispositiva e strumentale, non solo riflettendo sulle funzioni dei sistemi e delle costanti identitarie, ma interrogandosi sulle condizioni e sullo statuto degli eventi e delle differenze che quei sistemi e quelle costanti intendono negare. Entrambi provano ad approfondire il senso dell’événement. L’obiettivo è di sottrarre la differenza singolare alla fusione in una pura fluenza, che ne alimenta insieme la produzione e la distruzione. I percorsi dei due pensatori si incrociano, cioè, nella ricerca, per la différence, di un valore di posizione interno a una trama stratigrafica e complessa che ne possa legittimare la potenza della vita a fianco e contro il potere sulla vita.

Le tesi di Mauss sulle tecniche del corpo, ad esempio, si inquadrano – a leggere i testi meno noti – nella polemica con Lévy-Bruhl. A ridosso degli anni Trenta, occasioni di confronto e di discussione sui temi dell’arcaico impegnano Mauss in un deciso contrasto alle tesi del “pensiero partecipativo”. Per il pensiero arcaico – diceva Lévy-Bruhl, storico della filosofia prestato all’etnologia – conoscere non è altro da un intenso sentire partecipativo ed è, dunque, immedesimazione nella fluenza vitale cosmica. L’avvertimento emozionale e mistico dello straordinario e dell’irrepetibile, del “sacro”, resta il nocciolo della “coscienza mitica”, così sottratta alle forme della “coscienza empirico-teoretica”, come ripeteva Cassirer, documentando, in Das mythische Denken, le fonti levibrulliane. L’anima primitiva (la nozione di anima, di vita, di persona, è lontana, in questo contesto, da ogni determinazione concettuale, distintiva o sintetica) è solo il vivere e il sentirsi vivere, è l’avvertimento di una tonalità affettiva che agita un moto senza confini, che “dà esistenza” all’eccezionalità dei minimi, alle pure “azioni di presenza”, ai quanti di forza. Il corpo che sente non è altro da uno scorrimento inorganico e da una continuità frammentata, che si infiltra nel fuori, nella stessa catena dell’essere, oltre i margini del corporeo, negli abiti e negli umori, negli stati umbratili, onirici, analogici, in tutto ciò che accade per contatto, contiguità, imitazione, rassomiglianza mistica. Fa corpo col corpo ogni soglia di appartenenza, tutto ciò – dice Lévy-Bruhl – che sul corpo “cresce”, “tutto quello che ne esce”, gli oggetti in relazione “intima”, le “impronte”, le “tracce dei passi”, i “resti”, tutto ciò che consuma, che tocca, che contagia, oltre alle “ombre” e alle “immagini”. Ed è solo in tempo di crisi, quando la partecipazione è indebolita, che il sentirsi vivere è sottratto al movimento puro e, costretto all’urgenza dell’agire, è preso nella specifica parentela e nell’essenza partecipata del gruppo, dove la forza, ridotta, è individuata, limitata e soggetta al taglio della vita. Posizioni, ruoli e funzioni della forza sono, così, definiti solo dalla e per la sovrana vita di un insieme.

Il problema di Mauss è, in tutta evidenza, quello di interrogarsi sulle condizioni di pensabilità di una forza realmente attiva, di una singolarità vitale effettiva e delle sue resistenze materiali. La forza come intensa dissipazione del vivere condivide, infatti, dello psicologismo e del mentalismo l’astrattezza di un principio sintetico, e ciò, con l’assimilazione a un vitalismo universale e con la fusione energetica nel tutto, decreta l’esteriorizzazione totale dell’esistenza singolare e, di fatto, la sua sparizione. Allora, la questione della moderazione, della flessione, della riduzione della forza, il piegamento della pura differenza irruttiva, la rinuncia all’illimitatezza caotica della spinta vitale come della sua violenza assimilante, restano i nodi di una riflessione che prova ad elaborare un nuovo pensiero della differenza. Questa è realmente attiva se immessa nello spazio limitato e complesso di uno spessore reale dei processi, affidati all’analisi, dice Mauss, di un’antropologia completa. È allora necessario che il problema del corpo venga affrontato nel contesto di una stratificazione seriale, storica e insemplificabile. È necessario che il corpo, perché sia sottratto all’occupazione fusionale, non sia puro sentire e assoluto caos, nuda riserva energetica, ma si produca in un “cerimoniale collettivo”, in un’articolata trama simbolica e materiale, in una “leggenda” (il termine è di Lévy-Bruhl) o in una narrazione che lega – come vuole il doppio senso del legein – perché solo in essa, per Mauss, l’esistenza singolare non è cancellata nella fusione col clan, ma si assegna un posto e una individuazione. È, dunque, il pudore della forza che segna il valore della singolarizzazione. E questo pudore è dato alla forza solo se immessa nella densità di un contesto.

Credo che il pudore e il piegamento, la flessione riflessiva della nuda vita, della differenza singolare tal qual è, sia anche il nodo di elaborazione dell’intero percorso foucaultiano. Significative sono le prove di confronto con Deleuze. Ancora nel 1970, il Theatrum Philosophicum condivideva le tesi deleuziane dell’esercizio paradossale del pensare, sottratto alle logiche dell’identità e della contraddizione, immesso nella pura verticalità della disgiunzione: il pensiero, diceva Foucault, va pensato come irregolarità intensiva e dissoluzione dell’io, come alterazione, incremento minimo, variazione fluttuante, affermatività multipla, gioco di ripetizioni. Alla fine degli anni Settanta, ai tempi dell’elaborazione della “governamentalità” e delle analisi della penetrazione multipla e singolarizzante dei dispositivi di potere, Foucault inviava alcune note di carattere personale e confidenziale all’amico Deleuze, interrogandosi sul rischio dell’immediatezza e dell’irriflessività dell’atto desiderante, sul problema di come impegnarsi a distinguere “punte di deterritorializzazione” e “linee di fuga” da eventi e forze effettivamente oppositive e innovative, sulla questione della necessità di pensare, all’interno di un agencement de désir, un inevitabile, seppur indecidibile, partage tra i dispositivi di potere e i contropoteri, tra le forze che occupano la vita e quelle che di questa occupazione contrastano gli effetti e le strategie. Il tema della liberazione desiderante, com’è noto, è oggetto di critica, in apertura del testo, nell’Usage des plaisirs, ed è questa critica che è premessa decisiva alla nuova etica. Il desiderio non può essere postulato come principio liberatorio dalla repressione e così emarginato, di fatto, dal campo storico. La spinta desiderante è immessa in una complessa ruota di atto, piacere, desiderio che la forza singolare ha il compito di elaborare, praticando la moderazione e la valenza attiva dell’agente, dice l’etica come estetica dell’esistenza. La forza differenziale non è, dunque, l’evento di un flusso desiderante, ma la produzione di un valore di posizione dell’esistenza singolare, situata in un campo spazio-temporale di opportunità. La différence deplacée produce un’effettiva sottrazione alla sua sparizione solo se diviene forza etica e concreta esperienza.

Lo stesso concetto di esperienza testimonia, in modo incisivo, uno spostamento e una variazione di senso della nozione di differenza, di evento, di forza. Ai tempi delle analisi delle istituzioni di internamento e dei dispositivi di interdizione e di controllo – si pensi all’esordiente Historie de la folie – Foucault parla dell’esperienza del folle come di una “esperienza indifferenziata” della ragione-sragione, esperienza “non ancora scissa della scissura stessa”, esperienza sottratta alla scissura della scissura, alla scissione di sragione e ragione di cui è la storia, appunto, a dar conto. Il testo, omesso nella seconda edizione, è l’introduzione alla prima edizione del 1963. Qui l’esperienza, non ancora presa dall’occupazione manicomiale o, più tardi, psicologico-psichiatrica, è espressione libera della scissura non scissa, è trasgressione, inventività e lirismo, è pura ripetizione disgiuntiva, è testimonianza differenziale. Ed è questa trasgressione che libera: nel 1954, in Maladie mentale et psychologie, la perdita della scissura è assimilata alla caduta della libertà e dell’etica. Eppure, in uno scritto del ’72, proposto in appendice alla seconda edizione de l’Histoire de la folie, si segnala con largo anticipo la componente ascetica e meditativa dell’esperienza, per la quale l’esistenza singolare è “senza posa alterata dal proprio movimento”. Così, l’esperienza o l’esistenza singolare attiva non è l’esperienza limite, non è il gesto indicibile e insensato che si sottrae alla razionalità imposta e si chiama, inoperoso, fuori della storia, ma si annuncia come un enunciato reale, presente, attivo, dinamico, una forza di posizione, antagonista e interna alla trama di una “storia generale”. Con L’usage des plaisirs l’esperienza diviene, con decisione, l’articolazione triangolare di soggettivazione etica, sistemi di verità e dispositivi di potere. Ed è alla pratica di questa esperienza che va affidato il futuro di una socializzazione reale: «Il socialismo scientifico ha preso il via dalle utopie del XIX secolo» – scriveva in un testo del ’71 – «forse la socializzazione reale emanerà nel XX secolo dalle esperienze». Quanto, poi, la forza, come l’enunciato, sia sempre limitata e presa nel volume terminale e preterminale di un archivio che la trattiene e la libera, secondo l’archeo-genealogia degli anni Settanta, è un discorso noto e certamente lungo per poter essere qui discusso.

Credo che non sia di poco rilievo richiamare Mauss a monte dei nuclei teorici forti delle analisi di Foucault. Se si tien conto delle riflessioni etnologiche maussiane, la nozione di mana esprime, per limitarci ad un esempio, il movimento produttivo di una contingenza circoscritta: di questa, diceva, c’è sempre un residuo da descrivere e dunque è lo spazio di un milieu réel che è il “fatto sociale totale” o “il circolo delle cose stesse”. E negli scritti politici e sociologici, con un lessico straordinariamente vicino alle tesi foucaultiane, Mauss aggiungeva: solo una disposition moléculaire, un’attenzione micrologica, introduce nella sociologia generale un atteggiamento genealogico, perché solo una “genealogia” può restituirci quel “caleidoscopio di disposizioni” che lascia affiorare il mistero di una mescolanza, le secret de ce mélange, attivando, contro ogni utopia o conservazione, un orientamento diagnostico, dal momento che la trasformazione si annuncia sempre sul terreno del già esistente. Forse la lettura esaltata dell'Essai sur le don che ha offerto, nel Novecento, degli studi di Mauss una sintesi semplificata, e la radicalizzazione della tesi del dono come dépense, come spreco, cessione, perdita e dono di niente – credo che abbiano concorso ad oscurare la complessità della riflessione maussiana, poi foucaultiana, sull’événementiel.

 > Leggi la risposta di Jean-Marc Leveratto

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