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       mf : Se abbiamo capito bene, è precisamente questa tripla esperienza di depossessione che, a vostro avviso, permette di giustificare il ricorso alla disobbedienza civile – guardata sempre con sospetto nel quadro di una democrazia di diritto sociale che sembra in effetti garantire ai cittadini tutti gli strumenti per opporsi “legalmente” alle disposizioni legislative e regolamentari considerate ingiuste o indegne. Nello stesso tempo, voi fate notare che nelle democrazie contemporanee lo spazio a disposizione della disobbedienza tende a ridursi significativamente: « In quale stato di illegalità si potrebbe mettere oggi un cittadino per manifestare a un potere costituito la propria disapprovazione nei confronti di un’azione che esso compie in suo nome »? Così, la questione del perché disobbedire in democrazia – e quella dell’(apparente) contraddizione che esiste tra resistenza e democrazia – si legano indissolubilmente alla questione del come disobbedire in democrazia. A vostro avviso, cosa ci possono insegnare gli atti contemporanei di disobbedienza civile (praticati dai professionisti del servizio pubblico che lavorano a scuola, all’ospedale e all’università) a proposito di tali questioni del “perché” e del “come” e, eventualmente, a proposito del rapporto che lega questi due aspetti (ovvero il rapporto tra giustificazione teorica e impegno pratico)?

       S. Laugier, A. Ogien : Abbordare il campo del politico a partire dalla disobbedienza civile introduce un leggero spostamento di prospettiva, e conduce in effetti a ridefinire i limiti stessi del campo del politico e ad ammettere che i cittadini ordinari dispongono della piena padronanza del ragionamento politico. Ma questo spostamento ha un rovescio: ci porta a ritenere che la differenza tra giustificazione teorica e impegno pratico sia una questione mal formulata; o, piuttosto, che si fondi su una falsa distinzione.

La disobbedienza civile è una forma d’azione che consiste, per un individuo, nel rifiutare – in modo non-violento, collettivo e pubblico – di rispettare un obbligo legale o regolamentare poiché esso viola un “principio superiore”. Lo scopo di simile rifiuto è di obbligare l’autorità sbeffeggiata a sanzionarlo, in modo da sottoporre al dibattito pubblico la legittimità di tale obbligo, in occasione di un appello giudiziario. Questo modo di procedere è stato messo al servizio di “grandi cause” che gli hanno dato uno statuto di nobiltà: le lotte contro la colonizzazione, la segregazione razziale, le guerre ingiuste o quelle per il diritto all’aborto o all’omosessualità; e oggi quelle per i diritti degli stranieri, illegali e clandestini.

Ma queste “grandi cause” non esauriscono affatto le ragioni per disobbedire. Un nuovo motivo di disobbedienza appare al giorno d’oggi: la difesa della democrazia e l’estensione dei diritti politici dei cittadini. Una prima forma di disobbedienza civile di questo tipo consiste, per un gruppo di militanti, nel mettersi deliberatamente in situazione d’infrazione, cercando di articolare quest’azione a quella che un’opposizione politica mette in opera nell’ambito del dibattito democratico, al fine di abrogare o riformare delle leggi giudicate incomplete o nefaste (è il caso, per esempio, degli sradicatori di piante transgeniche o dei militanti del Diritto all’Alloggio). Una seconda forma suscita invece molto meno interesse mediatico: essa consiste, per un pugno di individui, nel rifiutare ostensibilmente di applicare una disposizione legale o regolamentare che sarebbero incaricati di mettere in opera, ma che ritengono essere nefasta per la giustizia o la democrazia. È il caso degli agenti statali che rifiutano di seguire quelle istruzioni che ritengono possano minacciare l’uguale accesso dei cittadini ai bisogni fondamentali (sanità, educazione, giustizia, ecc.); o nuocere alle libertà individuali; o peggiorare la qualità delle prestazioni offerte agli utenti di un servizio pubblico. La disobbedienza civile prende allora una forma un po’ inedita: boicottaggio delle operazioni di registrazione (come per “Base allievi”); rifiuto di produrre o di comunicare dati indispensabili all’esecuzione di procedure legali o amministrative (blocco delle inchieste obbligatorie per alimentare i molteplici sistemi d’informazione); rifiuto di riempire questionari o tabelle di bordo amministrative. La natura politica di quest’ultimo tipo di atti resta comunque misteriosa: di che genere di protesta sono l’emanazione e quale potrebbe essere la loro giustificazione teorica?

La disobbedienza civile è una forma di azione politica condotta in prima persona e coscientemente, in nome di un diritto calpestato, e che basa la protesta su una rivendicazione della quale chi disobbedisce suppone che tutti i propri concittadini ammettano la fondatezza. Questa forma di azione implica una serie di emozioni politiche specifiche: scoraggiamento, disgusto, vergogna di fronte alla rassegnazione o odio per la rinuncia (il sentimento di essere il solo a sapere cosa stia succedendo). Queste emozioni sono differenti da quelle suscitate da altre forme di azione politica che possiedono una giustificazione teorica ben istituita: la lotta collettiva, la solidarietà nell’azione, la mobilitazione per una causa partigiana, la violenza della resistenza o della ribellione. Infatti, nulla obbliga a dare una giustificazione teorica a questo impegno pratico contro l’inaccettabile. Ed è proprio questo a mettere in cattiva luce la disobbedienza civile.

Si può tuttavia trovare una giustificazione teorica al rifiuto di partecipare all’avanzata della digitalizzazione del politico. L’analisi mostra che le proteste che si esprimono a questo titolo si iscrivono in questa “guerra dei mondi” (che non è dichiarata, ma di cui vediamo i segni in molti aspetti della vita quotidiana) nella quale due campi opposti si affrontano: da un lato, chi concepisce l’esercizio del potere come un dominio riservato ai dirigenti, che imprimono risolutamente – e in modo autoritario, se occorre – gli orientamenti necessari e giusti che bisogna dare alla società per “modernizzarla” (il che vuole spesso dire, oggi, ridurre la qualità della vita dello Stato, dunque limitare i diritti sociali dei suoi abitanti e i compiti che costoro avevano preso l’abitudine di vedere da esso espletati); dall’altro chi, pensando ancora che l’organizzazione della vita collettiva sia competenza dei cittadini, difende una concezione del politico come uno spazio di pratiche articolato intorno alle nozioni che costituiscono la nostra umanità: uguaglianza, libertà, pluralismo delle concezioni del bene, inalienabilità del diritto alla critica, ecc.

Gli atti di disobbedienza al dominio crescente della digitalizzazione sul politico oppongono una resistenza (che non è sempre teorizzata come tale, forse perché i pericoli della digitalizzazione non sono percepiti da quelli che partecipano a simile processo o lo descrivono) alla messa in opera delle tecniche di governo fondate su un uso strategico dell’informazione, tecniche che spogliano i cittadini del loro mestiere, della loro lingua e della loro voce. È ciò che dimostra l’esame della Legge Organica relativa alle Leggi di Finanza (L.O.L.F.).

La messa in pratica delle disposizioni della L.O.L.F. segna, al di là degli accomodamenti, degli errori e degli scacchi che sperimenta, un cambiamento d’importanza, di natura concettuale e anche pratica: in questo dispositivo, le istituzioni dello Stato sono concepite come se fossero organizzazioni analoghe alle altre, che devono assolvere il compito che gli è affidato nel modo più efficace possibile. E questa efficacia (che è di natura puramente finanziaria) obbliga a far passare le pratiche amministrative in un regime di performance. Uno degli effetti di tale passaggio è la lenta modificazione del rapporto che lega il cittadino allo Stato di cui fa parte; e, a più lungo termine, la modificazione del concetto stesso di politico. Simile modificazione è in gran parte iscritta nell’elaborazione e nell’installazione dei sistemi d’informazione e dei pacchetti che trattano i dati che raccolgono: questo dispositivo tecnico, infatti, accelera l’espunzione dal linguaggio di descrizione del politico di ogni riferimento ai principi d’azione collettiva che definiscono l’ordine stesso del politico.

Gli atti di disobbedienza civile degli agenti e dei professionisti del servizio pubblico illustrano bene lo scarto che esiste sempre tra un impegno pratico (soprattutto quando esso deborda le forme istituite e accettate) e la possibilità di dargli una giustificazione teorica. E, per misurare la difficoltà di colmare questo scarto, basta considerare le questioni sollevate dalla rivendicazione espressa con il rifiuto di seguire le istruzioni che attualizzano la digitalizzazione. In effetti, com’è possibile stabilire un legame tra il rifiuto di riempire uno schedario informatico, nel servizio di un istituto amministrativo, e la denuncia di una maniera di governare che pensiamo rimetta in discussione la vocazione dello Stato e i principi democratici? Com’è possibile affermare la natura politica di una “moratoria sulla produzione dell’informazione”, la creazione di “Comitati di controllo dell’informazione statistica” nelle imprese e nelle amministrazioni? Come si può fare degli usi della statistica predittiva – quelli che organizzano la fabbricazione dei budget in modalità L.O.L.F., per esempio – un oggetto politico determinante?

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