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Alessandro Bellasio

La ragione altrove. Topologie d’eccezione in Michel Foucault


Recensione di Michel Foucault, Eterotopia, a cura di S. Vaccaro, T. Villani e P. Tripodi, Mimesis, Milano 2010 (48 p.)


La questione dello spazio interseca i più svariati campi disciplinari, al punto che è divenuto opportuno parlarne non più al singolare, bensì al plurale. Esistono infatti lo spazio geometrico e lo spazio fisico, entrambi dipendenti dal modello matematico che li può descrivere, così come esistono lo spazio architettonico, quello urbanistico, quello geopolitico, quello virtuale, quello delle transazioni e dei flussi di capitale, lo spazio siderale e la sorda radiazione di un presagio, di uno spazio oltre lo spazio degli anni luce, uno spazio al di là dell’osservabile. I modelli proliferano con il proliferare delle possibilità di osservazione e con l’accuratezza delle descrizioni pensabili.

Nel volumetto Eterotopia, e in particolare nel primo scritto, Spazi altri, Michel Foucault affronta la questione tentando un approccio relativamente trasversale, isolando le parti costitutive del problema per lo meno entro i domini dello spazio architettonico, di quello urbanistico e di quello politico. Foucault pone la questione dell’intelligibilità dello spazio inquadrandone anzitutto gli orizzonti storici. Punto di partenza non è l’Antichità, ma l’epoca medievale, che configura la sua topologia, secondo il filosofo francese, intorno alla figura della localizzazione, sulla base di un sistema di gerarchie, opposizioni, incroci: «luoghi sacri e luoghi profani, luoghi protetti e luoghi al contrario aperti e privi di difesa, luoghi urbani e luoghi rurali (in rapporto alla vita reale degli uomini). Per la teoria cosmologica c’erano dei luoghi sovracelesti opposti ai luoghi celesti; e il luogo celeste a sua volta era opposto a quello terrestre» (p. 8). Questo sistema accurato e compatto, orgoglioso e vigile sulle proprie capacità di integrazione e di inclusione, venne disintegrato dal modello fisico-astronomico galileiano, che prevedeva l’esistenza di uno spazio cosmico aperto, infinito, reso intelligibile a partire dall’estensione, la quale, nella nostra epoca, viene a sua volta rimpiazzata dal principio della dislocazione.

Localizzazione, estensione e dislocazione formano quindi, almeno in queste pagine, una serie discreta di strutture di configurazione e di comprensione dello spazio che si avvicendano nel corso del tempo, secondo una cadenza cronologica entro la cui cornice ognuno dei termini appresta una griglia interpretativa per lo sguardo retrospettivo dello storico. Tratto distintivo dell’epoca presente è inoltre il fatto che proprio lo spazio, e non più il tempo, rappresenti la dimensione peculiare delle sue stesse possibilità di auto-comprensione: «viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa» (p. 7). La profondità diacronica rispetto al futuro è infatti, oggi, poco più che materiale d’archivio ricevuto in lascito dalle epoche soteriologiche dell’umanità, le quali, almeno in Occidente, a livello macroscopico hanno conosciuto principalmente due grandi domini culturali, quello della promessa cristiana e quello dell’utopia marxista. Il presente è una struttura di totalità sincronica della presenza che segue il principio della circolazione delle informazioni, delle notizie, del cyber-capitale. Il suo spazio è saturo, denso, eterogeneo, contrassegnato dalle urgenti questioni dell’effetto antropico sull’ambiente e della sostenibilità demografica.

Questo spazio, questo mondo esterno «nel quale viviamo, […] nel quale si svolge concretamente l’erosione della nostra vita» (p. 11), ospita e articola in sé due grandi collettori di forze topologiche, che non somigliano a nessuno dei luoghi in cui siamo soliti abitare o trattenerci con il corpo e con il pensiero, veri e propri stati topologici d’eccezione: le utopie e le eterotopie. Di queste ultime, Foucault fornisce un elenco piuttosto consistente, benché la concisione richiesta dalle circostanze (Spazi altri è il testo di una conferenza) imponga una trattazione che privilegia brevità e risolutezza espressive. Eterotopie sono quegli «spazi differenti […], luoghi altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (p. 13); loro tratto distintivo, stando agli esempi apportati da Foucault, ci sembra essere una certa potenza di accumulo fantasmatico che esse raccolgono, concentrano e trasmettono, o custodiscono. Le eterotopie sono il luogo in cui abita il phantasma, in cui trovano spazio territori ontologicamente ibridi sospesi tra reale e immaginario, territori come quello della pubertà, della vecchiaia o della morte, i quali, per l’intensità di forze immaginifiche che mediano, richiedono una dislocazione peculiare o, se vogliamo, un transfert. Le eterotopie sono allora, anzitutto e non a caso, «eterotopie di crisi […], ad esempio il collegio, nella forma che lo caratterizzava nel XIX secolo, o il servizio militare per i ragazzi […], per le ragazze il “viaggio di nozze”» (p. 14). I primi due hanno in effetti svolto per lungo tempo il ruolo di collettori per il contenimento e la distribuzione interna dei flussi inerenti le prime, esuberanti manifestazioni di virilità; il terzo, nell’epoca della tutela sociale della verginità, è stato il perfetto non-luogo necessario a supportare e a riconfigurare, grazie al suo potenziale di vaghezza e sublimità romantiche, lo scabroso atto della deflorazione.

Ogni civiltà e ogni epoca produce le proprie eterotopie. Nel nostro tempo, le eterotopie di crisi vengono via via sostituite da eterotopie di «deviazione» (p. 14), come le case di riposo, le cliniche psichiatriche, le prigioni, i ricoveri per anziani, dove vengono raccolte tutte quelle potenze che, altrimenti, sfuggirebbero all’imperativo normalizzante e disciplinare del potere odierno: la malattia, la follia, il crimine, la vecchiaia, e l’agonia.

Eterotopie dell’incontro e della mescolanza di più luoghi, che diversamente risulterebbero incompatibili, sono il teatro, che «realizza nel riquadro della scena tutta una serie di luoghi che sono estranei l’uno all’altro» (p. 16), il cinema, dove in una stanza chiusa viene riprodotto su uno schermo uno spazio tridimensionale che crea una profondità virtuale, o ancora il giardino che, almeno nel suo antico modello di ascendenza persiana, rappresentava un microcosmo, una miniatura del mondo e delle sue gerarchie spirituali.

Eterotopia è infine anche il linguaggio, o meglio lo spazio del linguaggio, che è anche il titolo del secondo intervento della raccolta, un articolo del 1964 scritto per la rivista Critique, nel quale riecheggia una certa affinità d’idee con Lo spazio letterario di Maurice Blanchot. Come accennato, non il tempo, bensì lo spazio si delinea quale supporto teoretico per l’intelligibilità del mondo contemporaneo. E un analogo discorso varrebbe anche per la letteratura contemporanea; infatti, se, conformemente alla matrice omerica della letteratura occidentale, scrivere ha sempre significato «ritornare, risalire all’origine» (p. 24), ecco che, invece, attraverso «il ritorno nietzscheano [si è chiusa] una volta per tutte la curva della memoria platonica, e Joyce ha concluso quella del racconto omerico» (p. 24). Lo spazio letterario contemporaneo segue costellazioni formate dalle figure dello scarto, della frattura, della dispersione, della distanza, tutte ugualmente accomunate dal medesimo principio di ordine spaziale. Il punto è che tali configurazioni non solo rappresentano temi vitali per la letteratura odierna, ma sono il modo stesso in cui il linguaggio «giunge sino a noi chiedendo di parlare» (p. 24), vale a dire il modo in cui il linguaggio, attraverso lo scrittore, prende corpo in quanto scrittura epocale.

È uno spazio di scrittura anche la città-macchinario che Guattari descrive nella sua conversazione con Fourquet e Foucault, nel terzo, brevissimo intervento La città è una forza produttiva o di antiproduzione? A Fourquet, secondo cui «la prima forma di scrittura è la contabilità, la quantificazione […] dei flussi […], che il despota stacca e preleva per stoccarli […], flussi di oggetti materiali, flussi di informazioni, ecc.» (p. 33), Guattari replica che la città, considerata come macchina per le decodificazioni territoriali, possiede inevitabilmente la peculiarità di tutte le macchine, ossia quella di guastarsi. E non è un caso che sia la figura dello scriba a fungere qui da esempio paradigmatico. Lo scriba, in quanto depositario delle funzioni di contabilità e di registrazione dei flussi per mandato sovrano, scarta, devia verso una sovrapproduzione non richiesta e verosimilmente non prevista: egli, «che è lì per contare, si pone come un perverso, un farabutto, gioca con dei segni a fare poemi» (p. 34). La città di Guattari, il meccanismo urbano da lui designato come «corpo senz’organi-città» (p. 31), funge da apparato per la deterritorializzazione delle comunità primitive e la riterritorializzazione degli apparati collettivi che vi si inscrivono, primo tra tutti la lingua, che svolge l’agenzia primaria per la codificazione e la ridistribuzione dei flussi. A differenza di Guattari, che vede nella città un aggregato molecolare dall’elevato potenziale inerziale/entropico, «una proiezione spaziale […] composta dalla connessione di sistemi macchinici confluenti […], nient’altro che capitale accumulato» (pp. 35-36), Fourquet sostiene che la città è più dalla parte della produzione che non da quella della dissipazione, più dalla parte dello stoccaggio permanente che non da quella della dialettica tra articolazione e disarticolazione: «per definirla, non possiamo limitarci a certi criteri di dispersione, di prossimità e di distanziamento, di densità e di concentrazione… Essa è un mezzo di produzione, un valore d’uso per la produzione» (p. 35). Foucault comparirà, qui, solo con un breve intervento finale e principalmente nelle vesti di moderatore e di agente razionalizzatore delle numerose problematiche sollevate, ruolo svolto anche nella conversazione, in forma di work in progress per l’elaborazione di categorie ermeneutiche adeguate all’intelligibilità dello spazio urbano, che chiude il piccolo volume, e che vede riuniti attorno al tavolo delle idee, appunto, Foucault e il duetto Deleuze-Guattari.

L’impressione che resta al lettore, riemergendo dal libriccino, è quella di una continuità logica tra gli scritti dovuta più all’intima unità narrativo-argomentativa di Foucault stesso, che non alla sequenza con cui ci vengono presentati i testi medesimi. Eterotopia rappresenta, in definitiva, un valido strumento di lavoro per gli specialisti o, all’occorrenza, una piccola chicca per appassionati e intenditori.

 
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