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II. "Passaggio al limite sotto segno d'integrale". Ovvero la discesa della differenza nella trama della discontinuità Il complesso differenziale della produzione filosofica di Michel Foucault trova, nell’orientarsi e dis-orientarsi periodico proprio della discontinuità, il possibile svolgersi di una filosofia oltre il crinale dialettico. A un momento del reale concepito come unidimensionale secondo coordinate cronologiche ascendenti o discendenti, Foucault oppone la geometrizzazione del campo di forze tramite la formulazione di nuovi Grenzen: i rapporti di sapere-potere. Se il gioco di ricerca di un’altra «economia della parola» (p. 113) consisteva nel «verificare come funzionano “localmente” dei regimi d’espressione che declinano l’ordine del discorso in altrettante variazioni» (pp. 113-114), il passaggio da una prospettiva archeologica ad una genealogica, da una problematica relativa al sapere a quella relativa al potere, non avviene «a partire da un abbandono di temi o di una metodologia cui rinviano» (ibid.); è invece, afferma la Revel, il risultato di una continua tensione a «riformulare, a spostare, ad allargare (reformuler, déplacer, élargir) le analisi» (p. 286). Tenere conto del movimento di tale massa discorsiva consente di far emergere «una coerenza interna estremamente forte: una coerenza strana e complicata (bizarre et difficile) senza dubbio, ma comunque una coerenza, e delle più intense» (ibid.). È quindi scompaginando le periodizzazioni nette, come la frattura tra momento discorsivo-archeologico e momento politico-genealogico, (inaugurata dal testo di Dreyfus e Rabinow dell’83[1]), che l’autrice intesse traiettorie trasversali che incrociano gli enjeux del filosofo. Cosicché, se lo scioglimento dell’impasse del «mito dell’esteriorità» (p. 161) sfocia in una concezione dei rapporti di forza, potere e resistenza che si giocano piuttosto al livello dell’immanenza, il passaggio al campo politico e al progetto d’una analitica del potere è concepibile come «l’esatto prolungamento dell’analisi del campo discorsivo e del progetto archeologico» (p. 155). A un’«archeologia dello sguardo», la cui cifra predominante è la discontinuità, si affianca così una genealogia delle tracce d’esistenza, una ricerca orientata sul pensiero della differenza (pp. 11 ss.). In questo senso, se la tematica strutturalista viene innervata di «storicità»[2] tramite la nozione di archivio (a partire dal ’69), il perno della discontinuità, nonché del discorso dell’autrice, risultano gli événements, cesure che si manifestano sotto forma di fatti isolati o emergenze epistemiche generali. Dal momento in cui anche l’archivio si definisce nei termini di raccolta di discorsi in quanto événements, lo stesso lavoro archeologico «porta con sé un’inevitabile, per quanto laboriosa, déprise» (p. 129). Quando alla ricerca dei termini di produzione discorsiva si affianca la questione del soggetto, la genealogia, innestata sul metodo archeologico, si delineerà come la problematizzazione delle nostre appartenenze ad un regime di discorso dato e ad una determinata configurazione di potere. Se l’inchiesta genealogica è il «prolungamento dell’analisi descrittiva del passato attraverso una problematizzazione del nostro proprio presente», la déprise si articola come un «tentativo d’instaurare qualcosa come una differenza radicale in relazione a ciò che noi siamo» (ibid., corsivo mio). Il lavoro della Revel, quindi, si volge alla ridefinizione di limiti, periodizzazioni e scansioni del pensiero foucaultiano, abbattendo infine anche la barriera tra attività teorica e vita pratica. L’esperienza del G.I.P. risulta così una «svolta essenziale (tournant essentiel) nel percorso» del filosofo (p. 186), anche per quanto riguarda il passaggio da una problematizzazione fondata sul rapporto conflittuale tra blocco epistemico e formulazioni teoriche differenti (propria dell’opera del ‘66), ad una legata all’elaborazione d’una resistenza politica di carattere produttivo. L’esperienza del ‘71 assume così il ruolo di tappa di un décalage che da un piano esclusivamente discorsivo conduce ad un piano che concerne anche le pratiche. Lo slittamento è osservabile anche lessicalmente: già nell’enquête intolérance si fa riferimento a un’azione d’organizzazione che concerne le pratiche (s’organiser), e che è contemporaneamente ed inscindibilmente una tipologia di auto-denominazione (se formuler)[3]. Si potrebbe forse supporre, sembra suggerire l’autrice, che a partire dell’esperienza del G.I.P. i vari livelli dell’analisi foucaultiana prendano corpo e, tridimensionalmente, si muovano in uno spazio d’azione che è, contemporaneamente, teorico-pratico e correlativamente archeologico-genealogico. La problematizzazione del presente sarà così parallelamente affiancata da una ricerca archeologica: l’opera del ‘75, Surveiller et punir, è la perfetta intersezione di tali orientamenti[4]. Vediamo così come, grazie al tema del presente interrelato alla nozione strumentale di archivio, il percorso foucaultiano acquisisca la fluidità d’una coerenza «dentellata come una sega, a spirale, a salti e riprese, circonvoluti e a grappolo, all’interno di una sorta di esplorazione appassionata di tutte le figure che annodano i fili, pensano i problemi, sperimentano interamente sia concetti che pratiche, e non cessano di interrogare e di riproporre la questione piuttosto che voler risolvere e dissolvere» (p. 66). Si tratterà infatti di un’analisi che manterrà una tensione attiva tra fenomeno considerato e presente, o meglio, regime discorsivo del presente. «Appare così il tema di una filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta la sua linea di contatto con la non-filosofia, non esistendo tuttavia che grazie ad essa e rivelando il senso che questa non-filosofia ha per noi»[5]. III. “I’ll teach you differences”. Ovvero è ancora possibile fare filosofia dopo Hegel? Se il pensiero foucaultiano rifiuta il modello classico della storia della scienza, per cui il cammino della verità avanza per correzione e verificazione di errori successivi, o “stile granchio”, per esclusione delle forme passate, è grazie a degli ampliamenti concettuali (élargissements), attualizzando il movimento di una «spirale che si avvolge su se stessa e il cui punto focale non cessa di ampliarsi nel suo movimento d’inclusione» (p. 224), che la posta in gioco del filosofo francese si determina come una forma d’incedere filosofico che, pur realizzandosi nella differenziazione, non culmina in un’Aufhebung totalizzante. È infatti a ridosso del tranello dialettico, tra le colonne d’Ercole di comune e singolarità, identità e differenza che, secondo la lettura della Revel, si dispiega l’Erfahrung foucaultiana. Tale tematica, in termini astratti, si presenta come: «Possiamo pensare l’unità di un insieme di elementi diversi senza che questa unità sia necessariamente posta a priori, ossia pensata come fondamento della differenza?» O ancora: «Come pensare che la diversità di un certo numero di fenomeni possa dar luogo a un dispositivo complesso che renderebbe ragione di ciascuno di loro senza eliminarne le singolarità?» (pp. 248-249) Se ipotizziamo che una delle tâches del discorso foucaultiano sia stata quella di «sfuggire realmente ad Hegel»[6], allora la studiosa francese sembra rivolgere al filosofo quelle domande che nel ‘71 suonavano così: «Si può ancora filosofare là dove Hegel non è più possibile? Una filosofia può ancora sussistere, che non sia più hegeliana? Quel che non è hegeliano nel nostro pensiero è necessariamente non filosofico? E ciò che è antifilosofico è per forza antihegeliano?»[7]. Entriamo però nel merito proprio delle singolarità. Se all’interno del procedere del filosofo non si tratta di reperire un fil rouge, è comunque un filo di Arianna che l’autrice segue. Se è grazie al labirinto che esiste il Minotauro e non viceversa, è grazie a una determinata configurazione dei dispositivi di sapere-potere che il soggetto occidentale si costituisce storicamente. Ma, per esaminare tale labirinto di produzione delle soggettività, in che modo avanzare? Se negli anni ‘60 l’esplorazione verteva sui casi letterari, avamposti di singolarità irriducibili, all’interno della griglia di sapere-potere, la resistenza non può essere l’espressione di un utopico dehors, ma il necessario complemento di un gioco di forze che troverà nella ricerca etica un suo possibile prolungamento[8]. Abbiamo quindi una definizione di un metodo filosofico che, tramite una spinta centrifuga, crea una sorta di raggiera di problematiche in movimento, una girandola di foyers d’expérience. In questo modo, tutti i personaggi analizzati dall’autore, dagli scrittori (quali ad esempio Sade, Flaubert, Mallarmé, Joyce) agli uomini infami (da Piérre Riviére agli anonimi dell’archivio), appaiono fautori di «un’esistenza che non è più solamente ridotta alla produzione di una parola straordinaria (alla lettera: fuori dall’ordine del discorso), ma è qualcosa che si allarga a delle pratiche e a delle strategie d’esistenza» (pp. 157-158) – in una metamorfosi della ricerca foucaultiana che si snoda a partire dai “casi letterari”, passando poi per pratiche politiche e che, infine, culmina nelle ricerche etiche. Abbiamo così una qualificazione di atto politico come creazione d’uno spazio politico inedito, ossia la formulazione di un discorso politico di risoggettivazione che si svolge nei termini di strategie e pratiche collettive. La prospettiva, al contempo etica ed estetica degli anni ‘80, non sarebbe altro che il «prolungamento naturale dell’intreccio complesso che lega dispositivi di potere e pratica della libertà» (p. 248). Se l’efficienza del potere consisteva nell’esercitare un’azione sull’azione (conduite sûr les conduites), ossia nell’operare una trasformazione dell’azione, perché l’alterità venga riconosciuta e mantenuta nelle sue possibilità attive (come campo di risposte, reazioni, effetti, invenzioni possibili), la resistenza non può intendersi né logicamente né ontologicamente come una riformulazione storicizzata della dialettica servo-padrone, ma nei termini ontologici di un surplus di essere. Se da una lettura antagonista del conflitto si passa a una lotta nei termini d’incitazione reciproca, la libertà all’interno delle determinazioni storiche si definisce nei termini di un’“analitica della soggettività” che ha come punto di partenza nient’altro che il singolo, il soggetto, punto di una retta infinita, àncora d’una resistenza coestensiva e contemporanea al potere che sarà potenza d’inventività eversiva, nei termini di capacità di rovesciare, volgere di-verso. Ma quindi, se l’istanza del potere è produttiva e il potere è molteplice e disperso, ma allo stesso tempo delimitato da continue resistenze, come considerare la tematica della differenziazione di stampo hegeliano rispetto al problema della resistenza? La Revel è chiara: «Occorre prendere sul serio il tema dell’invenzione, si tratta, alla lettera, della creazione di forme d’essere nuove che, se sono immanenti e materiali, rappresentano nondimeno un accrescimento di ciò che è» (p. 276). La resistenza nasce così all’interno di una nouvelle ontologie, ossia di un intreccio inatteso di teoria e pratica, filosofia e storia. «Occorre fare del lavoro del pensiero e del suo legame (entrelacement) con l’esperienza un terreno di problematizzazione incessante delle categorie del nostro rapporto col mondo e delle condizioni della nostra soggettivazione» (p. 314). «Voilà donc le vrai courage de la vérité: quello che consiste nello spostare i luoghi del pensiero e della politica svuotandoli da se stessi e investendoli a partire da una pratica che sia […] ogni volta problematizzante» (p. 294). Ed è proprio nella continua ridefinizione di tali Grenzen che l’opera – o meglio, i tracciati di una singolarità che si è presa carico del compito proprio della filosofia, d’una criticità volta al distanziamento nei confronti dell’esistente tanto da colare in nuove forme di vita – conduce ad una filosofia altra, definendo così la sagoma della possibilità di un’esistenza sospinta dal travaglio impaziente della differenza. [1] H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989. [2] «La questione diventa la seguente: se si tratta di fare un’“archeologia” delle scienze umane, come reintrodurre la storicità del discorso pur mantenendo la possibilità di render conto della loro omogeneità? È probabilmente su questo punto che avviene, tra il 1966 e il 1968, l’abbandono progressivo del riferimento allo strutturalismo»; J. Revel, Foucault, une pensée du discontinu, cit., p. 73 (corsivo mio). [3] Cfr. ibid., pp. 129 ss. [4] «[Le] analisi di Sorvegliare e Punire rappresentano un ritorno ad un lavoro archeologico sulle forme moderne di penalità che è paradossalmente un’esigenza per una interrogazione attuale sulla possibilità di nuove forme di resistenza politica»; ibid., p. 183. [5] M. Foucault, L’ordine del discorso, in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2006, p. 39. [6] Ivi, p. 38. [7] Ibid.. [8] «[N]ell’interessarsi all’etica nella svolta degli anni ‘80, Foucault ha in realtà reso visibile un reflusso radicale del suo pensiero politico tale quale tuttavia tentava di costituire negli anni ‘70»; J. Revel, Foucault, une pensée du discontinu, cit., p. 295. |