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Martino Sacchi Landriani

La tendenza autoritaria del neoliberalismo contemporaneo 


Recensione di Grégoire Chamayou, La société ingouvernable. Une généalogie du libéralisme autoritaire, La Fabrique, Paris 2018 (326 p.)


L’anno precedente alla stesura del Rapporto sulla governabilità delle democrazie (1975) da parte della Commissione Trilaterale – racconta Howard Zinn in un passo della sua Storia del popolo americano – il Boston Tea Party aveva organizzato una celebrazione in occasione del duecentesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza. La speranza di ristabilire un ordine patriottico all’indomani dei movimenti sociali degli anni Sessanta era però destinata a sfumare: sotto il nome di People’s Bi-Centennial venne organizzata una grande contro-manifestazione nel corso della quale pacchetti etichettati Gulf Oil e Exxon furono gettati nelle acque del porto di Boston “a simboleggiare l’opposizione al potere della grandi aziende in America”. Il rapporto tra movimenti sociali, costituzione politica e imprese multinazionali negli anni Settanta del Novecento compone l’asse fondamentale del nuovo libro di Grégoire Chamayou, La société ingouvernable. Si tratta di una ricerca tempestiva, utile ad avviare una discussione sulla torsione fortemente autoritaria che caratterizza il neoliberalismo nella sua fase più contemporanea.

“Liberalismo autoritario” è per Chamayou il concetto di un governo socialmente asimmetrico secondo il quale “ad una limitazione del perimetro della decisione politica attraverso l’interdizione economica (il suo versante liberale), si associa una restrizione dei mezzi di pressione dal basso sulla decisione politica (il suo versante propriamente autoritario)”. Il testo propone una storia di questa asimmetria percorrendo la ristrutturazione governamentale degli anni Settanta. In particolare, Chamayou interroga filosoficamente il rapporto tra economia e politica, facendo irrompere nell’aritmetica neoliberale dei costi-benefici il rumore sordo della battaglia condotta dall’alto. La genealogia degli enunciati neoliberali viene infatti ricostruita a partire da un insieme di testi strategici direttamente redatti dalla classe manageriale con vocazione politico-programmatica e antioperaia.

Risulta significativo il fatto che questa “storia dall’alto” si apra con una sezione dedicata alla sfida lanciata dal basso. Nell’assenteismo di massa e nel sabotaggio sulle linee di montaggio prende forma una vera e propria mutazione antropologica del lavoro. Le nuove teorie psico-sociologiche tentano di analizzare questa forma inedita di indisciplina operaia ai tempi della piena occupazione, ponendo il tema della soggettività al centro dei rapporti riservati della grande industria dell’automobile. Dalla “Woodstock industriale” degli scioperi presso la General Motors di Lordstown, alle campagne di boicottaggio del nascente movimento ecologista, è l’iniziativa subalterna che occupa la genesi dei testi analizzati. Alla radice del governo neoliberale troviamo una resistenza interamente politica. Da un lato, la crisi di profittabilità non può essere risolta tramite il semplice aumento della disciplina fordista; dall’altro lato, l’apertura della partecipazione operaia all’organizzazione dell’impresa rischia di mettere in discussione la divisione del lavoro. Intorno a questa doppia impasse, il linguaggio della lotta di classe si mobilita dall’alto: “che fare”? Come agire a fronte dell’offensiva operaia? Chamayou racconta in che modo per riformulare la disciplina interna sia occorso agire sulle frontiere dell’impresa stessa.

Un secondo aspetto importante del libro consiste nel sottolineare che la rivoluzione manageriale degli anni Settanta implichi un generale ripensamento del  rapporto tra economia e politica. Nuovi concetti governamentali accompagnano questa mutazione nei rapporti tra interno ed esterno dell’impresa, come quelli di “esternalità”, “scarsità” e “responsabilità di impresa”. La teoria politica dell’istituzione occupa le pagine centrali del testo. Essa è sintetizzabile nei termini di un passaggio dall’impresa come “governo privato” (in cui il manager-principe è “oracolo dell’interesse pubblico” nell’accezione etica di Berle e Means), all’impresa come modello di governance (per come Jansen e Meckling riprendono il precedente teorema di Coase). Accanto alla sua genesi coloniale (purtroppo solamente accennata), il concetto di governance viene qui rintracciato nella funzione politica della finanza. La finanziarizzazione – Chamayou porta l’esempio dei fondi pensione – struttura dall’interno il criterio di obbligazione tanto dell’impresa, quanto dello Stato neoliberale. Il piano della disciplina sui corpi ne risulta anch’esso raddoppiato, dall’impersonalità della norma legale a quella della norma finanziaria. Dal punto di vista dell’impresa, l’economista britannico Robin Marris propone ad esempio nel 1960 di integrare il manager al mercato attraverso le stock-options, piuttosto che il salario. Le impersonali forze del mercato finanziario funzionano come “meta-governo dei governanti”, oltre che dei governati. Dal punto di vista dello Stato, la teoria dello stakeholding (“théorie des parties prenantes”, inteso come capitale umano o azionistico fondamentale al funzionamento dell’impresa) si generalizza oltre i confini del “governo privato” dell’impresa. Affinché Nestlé, Shell o Monsanto si facciano “responsabili” dell’impatto sociale di cui sono accusate dal movimento ecologista, esse devono poter operare una previsione e valutazione economica dei danni causati all’ambiente, o a qualcosa che non è merce come la salute umana. Estendendo la responsabilità si estendono anche la monetizzazione e privatizzazione necessarie al calcolo dei costi e benefici. I concetti di “esternalità” (da Pigou a Kapp) e “scarsità” (di matrice classica) si saldano definendo differenti scale di inclusione. Essere considerati stakeholders, come lo erano i gruppi di sabotaggio contro l’apartheid da parte delle imprese sudafricane, non significa automaticamente essere riconosciuti come attori di una negoziazione. Piuttosto, la teoria dello stakeholding permette di includere il mondo esterno alle mura dell’impresa senza mettere in discussione il primato decisionale su di esso. In questo movimento di inclusione secondo una logica di costi-benefici, la divisione imprenditoriale tra la proprietà del capitale azionario e il potere di gestirlo riservato al manager, si fa costituzione materiale dello Stato.

Terzo elemento fondamentale del libro: il rapporto tra neoliberalismo e Stato. L’analisi delle teorie dell’impresa aggiunge un tassello a un insieme di riflessioni che hanno come grande antecedente Nascita della biopolitica di Foucault. Chamayou propone di collocare le teorie di Hayek direttamente sullo sfondo del Cile di Pinochet: operazione genealogica funzionale a mettere in luce la centralità strutturante del concetto liberale di “libertà di appropriazione” – piuttosto che quello di libertà politica – all’interno del neoliberalismo europeo e americano. Il fine distintivo della dottrina di Hayek è l’anti-totalitarismo, che può essere raggiunto tanto con mezzi democratici quanto con mezzi autoritari a seconda delle circostanze. In ogni caso, se la teoria dell’impresa si presenta come guerra continuata con altri mezzi, questo è dovuto all’eccedenza costitutiva della democrazia rispetto alla sua funzione istituzionale rappresentativa, così come all’eccedenza dell’autoritarismo neoliberale rispetto alla sua funzione neo-corporativa (cosa che vi individuavano importanti critici come Poulantzas). Il testo di Chamayou mostra che la rivoluzione manageriale degli anni Settanta è – potremmo riformulare – una tipica “rivoluzione dall’alto”: risponde all’insubordinazione dei corpi rifugiandosi nell’astrazione finanziaria, senza tuttavia poter prescindere da essi. Corpi e finanza, oikonomia e catallaxia, disciplina e soft law, non descrivono una transizione lineare. La matrice schmittiana delle teorie di Hayek domina infatti l’ultima sezione de La société ingouvernable: essa è il segno della compresenza tra relativa autonomia degli attori e carattere orientato del sistema all’interno del quale questi attori devono necessariamente muoversi. Scrive Chamayou: “Se delle parties prenantes [ndr. stakeholders] giungono a costituire un rapporto di forza, allora esse saranno prese in conto sul piano strategico, ma delegittimate sul piano etico. La falsa alternativa che questo dilemma del riconoscimento intende lasciare ai contestatari è il seguente: o potenza illegittima, o legittima impotenza”.

Infine, il testo offre notevoli ulteriori spunti di riflessione. A partire da questa ricerca possiamo ad esempio domandarci quali continuità e rotture intrattengano i nuovi autoritarismi con la cesura degli anni Settanta. L’iniziale caratterizzazione del neoliberalismo come razionalità promissoria sembra oggi cedere il passo all’aggressività nazionalista, senza che questa tuttavia coincida con un materiale ritorno all’ordine precedente. Il testo di Grégoire Chamayou ha dunque carattere tempestivo: attiva le genealogie di un autoritarismo sempre più presente, seguendo dall’interno la produttività degli scontri che ne scandiscono la storia.

 
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