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Mara Montanaro

Ai bordi della storia: filosofia e politica tra Foucault e Merleau-Ponty


Compte-rendu de Judith Revel, Foucault avec Merleau-Ponty. Ontologie politique, présentisme et histoire, Vrin, Paris 2015 (226 p.)


L’ultimo libro di Judith Revel si compone di due parti di eguale importanza dedicate a Michel Foucault e Maurice Merleau-Ponty, la cui mise en parallèle è svolta attraverso il doppio binario della loro produzione teorica e dell’implicazione politica che essa assume.

Questa struttura ha il grande merito di evidenziare come la dimensione propriamente filosofica del lavoro di Foucault non consista o si risolva per nulla nella pura speculazione, ma nel praticare la filosofia “differentemente”. Attraverso un’analisi serrata e dettagliata, Judith Revel spiega che cosa significa qui “differentemente”: «contro l’alterità, contro la misura che assegna a ogni scarto una posizione sulla cartografia generale delle identità, si tratta dunque, molto presto, nel lavoro di Foucault, di far emergere l’irriducibilità della differenza o meglio delle differenze» (p. 70) E anche se il rischio di tale strategia della differenza contro la riduzione all’identico può essere quello di scivolare nell’ipotesi di un “fuori” assoluto, Judith Revel ribadisce come in realtà non sia mai possibile uscire dalla storia, dalle determinazioni materiali della storia, nelle quali soltanto possiamo agire differentemente.

Sin dall’introduzione il punto di partenza di Judith Revel è quella questione di capitale importanza che attraversa il pensiero moderno e contemporaneo, ovvero come indagare le condizioni di possibilità di ciò che si dà nell’esperienza. Alla declinazione kantiana di questo interrogativo è necessario aggiungerne un’altra che proviene dall’incontro tra filosofia e storia: quali sono le condizioni storiche di emergenza di quelle modalità attraverso le quali noi pensiamo il mondo e noi stessi in questo mondo? È questo il punto stesso da cui parte Foucault sin dai suoi primi scritti, quando il progetto di una “storia dei sistemi di pensiero” assume la forma di un’archeologia in grado di mostrare non solo la “grammatica” che utilizziamo per la nostra apprensione del mondo, ma anche le divisioni che definiscono, per ogni epoca, lo spazio di ciò che è pensabile in una determinata maniera, ovvero quel che Foucault chiama episteme.

A partire da questo problema, la prospettiva di Foucault deve essere seguita principalmente su due livelli. Nel primo, si tratta di chiedersi a che tipo di storia faccia riferimento Foucault quando essa è assunta tanto come principio metodologico (la storicizzazione dei sistemi di pensiero) quanto come orizzonte di analisi (la scelta di tale o tal altra periodizzazione come oggetto di analisi). Nel secondo, è in questione l’idea stessa di storia che Foucault mette in gioco, quella per cui tutto è sempre il prodotto di una certa storia, che emerge permanentemente dagli interrogativi sul proprio presente e sulle discontinuità che “l’oggi” introduce rispetto a “ieri” – da qui l’attenzione di Foucault per il “discontinuo”[1]. Questa duplicità di piani conduce Judith Revel non solo a interrogarsi su come Foucault concepisca la storia, ma anche a inserire la possibilità stessa di tale questione all’interno di un quadro storicamente più ampio, ovvero quello del pensiero filosofico francese dell’après-guerre, facendo così del pensiero di Foucault l’oggetto di un’inchiesta la cui metodologia sarebbe, essa stessa, foucaultiana.

Il presupposto da cui parte Judith Revel è che mai un pensiero, fosse anche quello di Foucault, può darsi fuori dalla sua storia. Di conseguenza, se introdurre pezzi di filosofia all’interno di un cantiere storico è stato un gesto singolare all’interno di una certa congiuntura storica e politica, diventa allora necessario intraprendere l’analisi delle determinazioni storiche e filosofiche che hanno reso possibile questo stesso gesto. Del resto, se Foucault ha sempre cercato in maniera molto esplicita di cambiare i termini (e gli effetti politici) dell’inchiesta filosofica attraverso la storia, questo ha nondimeno comportato una continua ridefinizione del suo rapporto alla storia, tanto da un punto di vista teorico quanto da un punto di vista politico. È quindi nel mutevole entre-deux tra filosofia e storia che Judith Revel propone di orientare lo sviluppo delle proprie analisi, suggerendo come, alla messa in discussione della storia delle rappresentazioni, faccia da contrappunto la problematizzazione dell’atteggiamento etico; come la ripresa di una tradizione critica di pensiero, dislocata fuori dal proprio luogo di origine, si accompagni sempre a un lavoro meticoloso e «grigio» sulle fonti di archivio; come l’interrogazione quasi giornalistica dell’attualità rinvii a inedite modalità di pensare il mondo filosoficamente (p. 10). Seguendo questi intrecci, la riformulazione della filosofia a partire dalla storia, e il modo in cui la prima può inventarsi come pratica politica, fanno emergere quanto sia cruciale questa maniera di pensare la storia autrement, ovvero questo modo di pensare il rapporto alla storia anche come un atteggiamento (attitude) filosofico. In altri termini, attraverso questa concezione della storia, si tratta di riformulare in modo radicalmente differente l’idea del lavoro del filosofo, dislocandone il luogo e il compito che tradizionalmente gli erano assegnati, per aprire così a sua volta lo spazio per una storia altra, in rottura con le rappresentazioni politiche dominanti e con le forme che ne codificavano la conoscenza.

Secondo Judith Revel, al cuore di quest’altra maniera di pensare la storia vi è l’idea, inizialmente formulata da Foucault in modo esitante, poi apertamente rivendicata, che noi non possiamo scegliere tra le determinazioni storiche di cui siamo il prodotto e la libertà che è la nostra: non si dà mai un’alternativa tranchante tra il determinismo e il volontarismo. In egual misura, scandagliando l’opera foucaultiana, non si troverà mai, in Foucault, una disgiunzione tra lo statuto dell’oggetto storico e quello di soggetto della storia, come pure tra una condizione di assoggettamento in cui si è determinati dall’esterno e quella della soggettivazione in cui la libertà si mostrerebbe nella sua intransitività. Per Foucault si tratta piuttosto di pensare insieme la storia e la libertà degli uomini; le determinazioni storiche che plasmano le nostre esistenze e la nostra infinita possibilità di agire; la maniera in cui la storia ci fa essere ciò che siamo e la possibilità che allo stesso tempo conserviamo di agire la storia.

Ora, sottolinea Judith Revel, questa com-possibilità che si dà come simultanea non è facile da pensare, ed è per questa ragione che viene appositamente mobilitato il decisivo concetto di chiasma, che l’autrice prende in prestito a Merleau-Ponty e che, come si vedrà, costituisce il primo dei traits d’union che possono essere tracciati tra le posizioni dei due filosofi. È noto come, nel lessico filosofico di Merleau-Ponty, il chiasma caratterizzi la struttura percettiva del nostro rapporto al mondo, e come esso designi una struttura non solamente duplice, ma anche capace di legare, in maniera indissociabile e nel registro temporale della simultaneità, le due polarità che presenta: l’uno e l’altro lato del chiasma si danno sempre insieme e, nello stesso tempo, la loro reversibilità attiene a questa compresenza necessaria. A dispetto della facile schematicità di questa figura, Judith Revel ricorda come, nella dinamica propria della percezione, questa situazione sia invece piuttosto difficile da cogliere, dal momento che noi siamo in grado di afferrare solamente una delle due polarità in questione nel chiasma, percependoci infatti o come “vedenti” o come “visti”, o come “toccanti” o come “toccati”, mentre in realtà siamo simultaneamente entrambi.

La mossa interpretativa che il concetto di chiasma permette all’autrice è proprio quella di far cogliere la peculiarità dell’inscindibile legame che troviamo in Foucault tra l’insieme vincolante delle determinazioni storiche e l’apertura del presente a ciò che esso non contiene, ovvero alle sue eccedenze; tra il peso e gli effetti strutturanti di una «storia già fatta» e la paradossale e permanente capacità d’invenzione che può introdurre una differenza nella storia. Entrambi questi poli si danno solo insieme, anche se noi percepiamo alternativamente o l’uno o l’altro. Per pensare questi estremi come simultaneamente presenti occorre quindi una nuova maniera di pensare la storia che tenga conto e possa descrivere tale chiasma. È in questo senso che il chiasma fornisce la chiave di accesso alla comprensione di quel che Foucault intende fare con la sua «storia dei sistemi di pensiero», ovvero ricostruire come si diano simultaneamente, da un lato, gli isomorfismi che tra di essi si delineano così come le periodizzazioni alle quali questi danno luogo, e, dall’altro lato, le rotture di queste stesse continuità.

Tutto ciò equivale ad affermare che la storia non ha un fuori – perché non si dà nulla al di fuori di una storia che determina le forme e i modi di ciò che è e, allo stesso tempo, la maniera in cui cerchiamo di comprenderla. Pertanto, l’unica soluzione possibile è quella di riconoscere in questo “dentro senza un fuori” quelle tensioni, quelle biforcazioni possibili, quelle torsioni e quelle possibilità di ritorno che emergono poco a poco sul fondo delle continuità strutturali. Tutte quelle discontinuità che, lungi dal limitarsi a influenzare epifenomenicamente il corso di una storia in buona sostanza già prestabilito (o peggio, teleologicamente orientato), ne dislocano e ne modificano invece il tracciato in modo radicale, reinventandone gli equilibri, riformulando le sue linee di divisione e inaugurando altri paesaggi storici.

All’interno di questo quadro tematico e interpretativo, nella prima parte del suo libro, intitolata “Foucault, la storia e l’attualità”, Judith Revel analizza dettagliatamente i modi differenti in cui Foucault, dagli anni sessanta fino alla sua morte, ha affrontato il problema del rapporto con la storia. È qui che, come scrive l’autrice, si tratta di introdurre «la differenza possibile» nel cuore del presente, partendo dalla distinzione che Foucault opera tra presente (la situazione che ci determina per quel che siamo) e attualità (la possibilità di introdurre una rottura imprevista nella catena delle determinazioni storiche) (p. 49). Ciò che viene così messo in gioco è allora «un atteggiamento storico-critico per cui non si esce mai dalla storia ma vi si sperimenta, vale dire si inventa all’interno delle determinazioni storiche, e tale invenzione concerne due campi precisi e comunicanti tra loro: da un parte la soggettività, dall’altra la vita o meglio i modi di vita» (p. 51).

Ma come bisogna intendere lo spazio politico che si apre attorno a questo atteggiamento? Per rispondere a tale questione, attraverso una minuziosa analisi degli scritti di Foucault sull’Aufklärung kantiano, Judith Revel si interroga sullo statuto teorico e politico della soggettivazione collettiva, ovvero di quel “noi” che si sbaglierebbe a intendere come un presupposto della riflessione storico-critica, in quanto esso ne costituisce semmai il risultato. Ma da dove partire? È solo lavorando all’archeologia dei modi di soggettivazione passati e, al tempo stesso, alla genealogia dei modi di soggettivazione presenti, che sarà possibile inventare e praticare quell’«atteggiamento sperimentale» che consiste nell’introdurre la discontinuità e l’invenzione nel rapporto a sé (p. 53). L’etica diventa così il luogo dell’intensificazione di una relazionalità il cui esito è potentemente politico. La soggettivazione – il lavoro di sé su sé, la maniera in cui, rapportandoci a ciò che c’è, possiamo modificare “la pasta” e la forma di cui siamo fatti, e sperimentare inedite modalità di esistenza – non è quindi esterna né al rapporto con l’attualità, né alla dimensione collettiva che può assumere il rapporto con essa. È per tale ragione che Judith Revel sottolinea come l’etica non sia altra cosa dalla politica: entrambe, infatti, sono intese come modalità di produzione di “differenze possibili”, come potenza d’invenzione (a partire da ciò che è già, e che lo è sempre in modo storico), e obbediscono pertanto allo stesso processo (p. 61). Così è all’interno della materialità dei rapporti e dei dispositivi, di istituzioni e di configurazioni epistemiche, di corpi e di modi di vita, che la dislocazione delle linee, che il ripiegamento di ciò che si dà come un “già là” storico verso ciò che esso non è ancora, prende il nome di etica. Da qui l’autrice conclude che, senza un lavoro di sé su sé come produzione storica, ovvero senza un lavoro di sé (come invenzione e soggettivazione) su sé (come già là, quindi come soggetto oggettivato dai discorsi e dalle pratiche), nessuna resistenza è in realtà auspicabile o possibile. E anche se, continua Judith Revel, Foucault negli anni settanta compie uno slittamento lessicale, utilizzando il termine di “contro-condotta” al posto di “resistenza”, ciò che resta fondamentale è che risulta impossibile immaginare l’invenzione di un possibile spazio di libertà al di fuori della dimensione più affermativa delle produzione di soggettività (p. 74).

Nell’etica, tuttavia, il sé oggetto di questo lavoro sperimentale non è costituito solamente dall’elemento disincarnato della riflessività. In quanto condizione di possibilità stessa della pratica filosofica intesa come sperimentazione di una differenza possibile all’interno della storia, la filosofia deve intendersi pure come pratica carnale, materiale, che si fa esistenza senza nessuna mediazione, ovvero come “vita”, come bios. Judith Revel spiega come sia la vita a permettere la produzione di differenza, o meglio ancora la vita è essa stessa differenza. È una differenziazione senza fine, e l’essere non corrisponde a nient’altro che all’ontologia di questo processo immanente alla vita stessa e pertanto assolutamente materiale.

Nella conclusione della prima parte si ritorna così su cosa si debba intendere per «ontologia del presente» e per «ontologia critica di noi stessi», per ribadire come questi concetti non rinviino se non a ciò che il termine produzione contiene già (virtualmente) in sé, ovvero la produzione di nuove forme di vita assolutamente immanenti alla storia; inediti modi di esistenza; forme di rapporti a sé e agli altri; comportamenti; modalità di organizzare la vita insieme; rappresentazioni del mondo e di sé in questo mondo, all’interno della materialità delle sue determinazioni storiche. L’ontologia storica di noi stessi come esseri liberi è allora, al tempo stesso, la diagnosi della nostra situazione storica, la cartografia delle determinazioni di cui siamo i prodotti, e la potenza che noi ci riconosciamo come produttori (inventori) potenziali di altre forme di vita. Ancora, nella sperimentazione di questi differenti “giochi di verità”, c’è qualcosa come un ripiegamento della storia su se stessa: nulla le è estraneo e tutto vi è contenuto e prodotto. In tal senso, l’attitudine o la sperimentazione di un ethos avviene sempre sul bordo della storia, vale a dire al presente, in altre parole la ricerca della sua apertura sempre possibile è in Foucault un altro nome della storia stessa (p. 109).

La storia non si riduce dunque à ciò che ha avuto luogo o ha potuto avere luogo: essa è nello stesso tempo alterazione che si effettua nel cuore del presente, vale a dire irruzione di novità all’interno di un campo dove nulla è programmato in anticipo e una volta per tutte. È un dentro senza un fuori, che non si chiude su se stesso e non è mai definitivamente compiuto. In questo quadro, alla luce di questa idea di storia, vivere significa assumere tutte le conseguenze di questo non-compimento che costituisce la forma per eccellenza del divenire: è continuare a vivere lungo le determinazioni che ci costituiscono, mantenendo ugualmente in permanenza la possibilità di scegliere come vogliamo vivere, dunque la possibilità di tracciare linee la cui traiettoria si piega o diverge, dislocando o superando i limiti all’interno dei quali tali linee man mano si inscrivono. Compresa in questo modo, la storia non si riduce né a un dispositivo di registrazione di quel che accade, né a un quadro generale dove una serie di eventi prenderanno posto: essa si presenta piuttosto come un campo di lotte, o come un terreno di gioco, dove si producono scambi incrociati (chiasma), la cui via di fuga non è mai determinata a priori. Se essa è un dentro senza un fuori, è perché produce il suo fuori dal suo interno, tenendosi, nello stesso tempo, in ritardo e in anticipo in rapporto a se stessa, dunque in uno stato di equilibrio precario, in corso permanente di ristrutturazione, alla ricerca del suo senso, che tuttavia non cessa di sfuggirle ogni volta che la storia cerca di seguirlo.

È quando sfocia nella riflessione di questo ripiegamento della storia su se stessa, disturbandone la stabilità e, al tempo stesso, minandone le certezze, che il percorso foucaultiano, secondo Judith Revel, raggiunge quello di Merleau-Ponty, il quale, con diversi mezzi concettuali, ha anch’egli cercato di tenere insieme ontologia e politica, tanto nel suo percorso di pensiero quanto nel suo orizzonte politico. È proprio in questa prospettiva che l’autrice cerca di far dialogare Merleau-Ponty e Foucault, evitando di ricondurre questo dialogo a un semplice confronto delle loro posizioni teoriche: ciò che le interessa è infatti fuori dall’ordine della speculazione pura, e punta verso il cuore dell’attualità non per cercare un altro modo di interpretare la storia, bensì un atteggiamento dinanzi a essa. Per tale ragione, l’angolo d’attacco adottato per operare questo raffronto è innanzitutto quello della politica, le cui poste in gioco sono, prima ancora che teoriche, principalmente pratiche.

Da questo particolare punto di vista, Judith Revel mostra come, attraverso termini e argomenti differenti, Merleau-Ponty e Foucault siano accomunati dall’intento di liberare la storicità dal presupposto teleologico, per evitare da una parte l’alternativa astratta, e per di più politicamente infeconda, tra determinismo e libertà, e per poter così inscrivere, dall’altra, la possibilità del cambiamento nel cuore del presente.

La seconda parte del libro si apre infatti sul “Merleau-Ponty politico” e ruota in gran parte attorno a una dettagliata e fine analisi della rottura tra Sartre e Merleau-Ponty, operando attraverso di essa una serie di cortocircuiti e di mise en parallèle con l’opera di Foucault, che rendono estremamente originale l’interpretazione di entrambe le loro posizioni. Una delle tesi più interessanti e appassionanti che l’autrice propone è infatti quella di poter rintracciare in questo movimento a ritroso da Foucault a Merleau-Ponty (come recita lo stesso titolo del libro, “Foucault avec Merleau-Ponty”) addirittura un’altra storia possibile del pensiero francese del dopoguerra. In altre parole, a partire dalla singolarità del pensiero di Foucault sulla storia fino a giungere alle posizioni di Merleau-Ponty contro Sartre, sarebbe possibile intraprendere una sorta di contro-storia che sia, nello stesso tempo, intellettuale e contestuale, epistemica e politica, e che si ponga in ultima analisi il compito di mostrare in che modo il pensiero francese contemporaneo ha cercato tenere assieme la storia, la filosofia e la politica.

Se, nel caso di Foucault, l’autrice aveva scelto di far partire la propria analisi dagli ultimi corsi al Collège de France, per quanto riguarda Merleau-Ponty si tratta invece di iniziare dal bel mezzo del suo percorso, e cioè dal 1953, proprio quando si verifica una cesura estremamente importante che ridefinirà il senso stesso delle ricerche che egli aveva condotto fino a quel momento: ovvero il già menzionato litigio che lo allontanerà definitivamente da Jean-Paul Sartre. Partendo da qui Judith Revel non si limita solo a mostrare quanto questo evento, che di fatto non ha mai ricevuto la giusta attenzione e analisi, sia stato determinante per il pensiero filosofico e politico di Merleau-Ponty, ma anche come esso rappresenti una stupefacente anticipazione di alcuni temi che Foucault svilupperà vent’anni dopo.

Si tratta di un evento che aiuta a rileggere sotto una nuova luce tanto Le avventure della dialettica quanto altri testi che si trovano in Segni e La prosa del mondo (come anche alcune note che si ritrovano ne Il Visibile e l’Invisibile). Attraverso ciò che emerge dalla rottura tra Merleau-Ponty e Sartre si può allora intravedere come l’opera complessa di Merleau-Ponty sia attraversata in filigrana dal tentativo di sviluppare congiuntamente il progetto di una nuova ontologia e quello di un’inedita grammatica del politico. Attraverso una disamina attenta e rigorosa di questi testi, Judith Revel mette in luce il modo in cui Merleau-Ponty costruisce un pensiero non-teleologico della storia, in cui l’azione politica si definisce come differenza produttiva, vale a dire come matrice creativa (suggerendo una strada diversa da altre prospettive come quella dello stesso Sartre o come quelle che riconducevano con accenti diversi al marxismo ortodosso dell’epoca).

Ora, quello che Judith Revel sottolinea è che, perché questa ricostruzione fosse possibile, si è dovuto attendere che passassero ben quarant’anni dal momento della rottura, si è dovuto cioè attendere di poter accedere al dossier integrale delle lettere. Fino al 1994 si pensava infatti che questa rottura fosse essenzialmente un litigio fra amici, quindi tramato da ragioni principalmente personali. Una rottura sicuramente non da poco, nella misura in cui metteva fine a un rapporto “denso”, al tempo stesso personale, militante e filosofico, che si era per di più consolidato attraverso la comune esperienza di Les Temps Modernes, la rivista che – con Sartre e Simone de Beauvoir – Merleau-Ponty aveva fondato nel dopoguerra.

Judith Revel ci mostra, ricostruendo dettagliatamente queste lettere, sia quanta importanza esse abbiano per le successive opere di Merleau-Ponty e di Sartre, sia come non sia possibile separare in questo scambio il disaccordo filosofico da quello politico. Di fronte a quei commentatori che hanno sottostimato o occultato le vere poste in gioco di questa rottura, riducendola a una sorta di gioco delle parti nel piccolo teatro dei rapporti personali, ma anche dinanzi all’interpretazione che lo stesso Sartre compie nel piccolo testo che dedica a Merleau-Ponty dopo la sua morte, fornendo un’interpretazione del loro dissidio che ne cancellava con grande cura il carattere politico, Judith Revel ci invita a considerare le cose in altro modo. Merleau-Ponty non sceglie la filosofia contro la politica (come Sartre sostiene), ma, al contrario, la politica come filosofia, e questo introduce nel suo pensiero un punto di svolta decisivo che lo porta a riconsiderare i rapporti tra filosofia e politica alla luce di una riflessione su come bisogna intendere alcuni concetti chiave, come quelli di evento, storia e libertà.

Questa riflessione si sviluppa lungo alcuni punti di problematizzazione di cui Judith Revel offre un’analisi minuziosa. In primo luogo, Merleau-Ponty parte da una critica radicale dei pensieri teleologici e delle causalità lineari che irretiscono la storia in una totalità chiusa, ai quali oppone la co-implicazione (chiasma) di ciò che è determinato dalla storia e di ciò che, allo stesso tempo, ha la potenza di modificarne le determinazioni. In secondo luogo, si tratta di andare al di là della dialettica per come Sartre la intendeva e parlare piuttosto di un’«iper-dialettica», ovvero una dialettica che non sia sintesi e che non sia destinata a concludersi; essa semmai si colloca in un mondo che contribuisce a produrre, non è distaccata dall’essere (incaricata di realizzarlo) e non smette, al contrario, di inaugurarlo. È questa condizione, apparentemente paradossale, di una dialettica storica senza sintesi né fine, che si situa nella storia disegnando aperture inedite, che si dà come “maturazione” e “rottura”, come sedimentazione e come inaugurazione, che si tratta di pensare[2]. Infine, viene presa in considerazione l’importanza che Merleau-Ponty attribuiva al concetto di espressione, in quanto fulcro di un pensiero dell’invenzione, dell’inaugurazione e della creazione che aveva luogo nel “già là” della storia, tanto da condurre lo stesso filosofo a sostenere esplicitamente che, a dispetto delle sue radici che affondavano originariamente nell’ambito dell’estetica e della linguistica, questo tema dell’espressione costituiva in verità la matrice del suo pensiero della storia e della politica.

Attraverso una decisiva analisi della lettura che Merleau-Ponty fa della linguistica di Saussure, Judith Revel mostra come la messa in rapporto delle differenze di cui è costituito un sistema linguistico sia quel che assicura tanto il carattere produttivo di questa mise en rapport, quanto il suo stesso carattere di continua apertura e di infinita possibilità di ricomposizione. Uno dei punti di maggior tensione teorica dell’analisi di Judith Revel è proprio il tentativo di mostrare che la produttività di questa «differenza di differenze» che Merleau-Ponty trae dal modello linguistico di Saussure è all’origine della sua concezione di una storia, per l’appunto, aperta (non incardinata a un telos verso cui inevitabilmente tenderebbe). Una prospettiva di tal genere consente tra l’altro a Merleau-Ponty di sbarazzarsi di una certa idea del “negativo” e gli permette d’altra parte di rileggere Marx da un punto di vista molto diverso da quello del materialismo dialettico. Il modello del chiasma introduce quindi una novità rispetto alla dialettica e alla modalità propria della dialettica di concepire la negatività (all’interno di una totalità chiusa alla quale essa deve infine condurre necessariamente).

Secondo l’autrice è dunque il modo in cui questo carattere produttivo della differenza di differenze (che Merleau-Ponty trova nella linguistica) lavora nel cuore delle idee di storia e di agire politico, a fornire la chiave di comprensione e le condizioni di pensabilità di queste ultime. E, allo stesso tempo, è proprio questo modello a rappresentare l’anticipazione inattesa di quello che ritroveremo in Foucault quando egli insisterà sul rapporto con l’attualità come possibilità di introdurre una differenza, o su come la libertà intransitiva dell’agire umano si inscriva nell’insieme delle determinazioni storiche proprie a un momento dato.

Ma è nell’ultimo capitolo, intitolato “Il chiasma della storia”, che il confronto con Foucault diventa ancora più serrato e si riannoda ancora, dopo le pagine dedicate a Merleau-Ponty, all’idea di chiasma e alla possibilità che essa dischiude di pensare le due polarità insieme e non secondo modalità disgiuntive che le dissociano artificialmente. È così che, anche per Foucault, potere e resistenza, essendo prodotti al contempo all’interno di uno stesso campo e non su due piani differenti, sono da pensare paradossalmente insieme, visto che l’uno non può darsi senza l’altro, funzionando sempre in relazione, nel quadro di una tessitura complessa senza cominciamento né fine, dove tutte le posizioni prendono posto in un “già là” che, nondimeno, dischiude loro prospettive indefinite di dislocazione. Per Judith Revel, ciò che Foucault chiama produzione, ethos, atteggiamento (attitude), sperimentazione della differenza possibile, nel vocabolario teorico di Merleau-Ponty corrisponde proprio all’espressione, nella misura in cui è proprio l’espressione a consentire di superare un uso convenzionale del linguaggio mediante un processo in invenzione. È l’espressione che fa sì che il movimento stesso della lingua (che deve comprendere al suo interno anche l’esperienza espressiva del soggetto parlante) inauguri e fissi significati. L’espressione è quindi la possibilità stessa di rendere compossibili l’innovazione e la tradizione.

Mostrando come il modello del chiasma sia decisivo, da un lato, per pensare quell’altra storia cui l’autrice fa riferimento sin dalle prime pagine del libro e, dall’altro, per riannodare il percorso teorico e politico di Foucault e Merleau-Ponty, Judith Revel effettua un’operazione complessa, originale e ancora del tutto aperta, che la spinge molto oltre gli angusti confini del commentaire, inaugurando un nuovo e diverso modo di leggere la filosofia francese contemporanea, ma potremmo aggiungere, la filosofia tout court: «une histoire des problèmes, et non pas des doctrines: une histoire de la pensée se faisant – et tissant sans cesse, à partir de l’empilement des questionnements déjà formulés, les conditions de possibilité d’une interrogation nouvelle. Une autre manière, en somme, de pratiquer la différence possible» (p. 214).



[1] Per un’analisi dettagliata della categoria di discontinuità nell’opera foucaultiana, cfr. J. Revel, Foucault, une pensée du discontinu, Mille et une nuits, Paris 2010.

[2] Cfr. p. 205: «nel pensiero e nella storia, così come nella vita, conosciamo soltanto superamenti concreti, parziali, carichi di sopravvivenze e di deficit, non c’è superamento che conservi tutto ciò che le fasi precedenti avevano acquisito, vi aggiunge sempre qualcosa di più, e consente di sistemare le fasi dialettiche in un ordine gerarchico».

 
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