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Mauro Peroni

Foucault tra pensiero antico e consulenza filosofica


Compte-rendu de Moreno Montanari, Hadot e Foucault nello specchio dei Greci. La filosofia antica come esercizio di trasformazione, Mimesis, Milano 2009 (214 p.)


Il testo di Montanari è un lavoro di natura ricostruttiva che mira a chiarire le caratteristiche che connotano gli approcci di Pierre Hadot e Michel Foucault al pensiero filosofico antico. I due autori condividono l’intenzione di porre in risalto la dimensione eminentemente pratico-trasformativa che il filosofare ha mantenuto nel corso dei primi secoli della sua storia, ma nello svolgere questa esigenza comune non assumono la medesima traiettoria teorica. Nell’Introduzione viene subito misurata la distanza che separa i loro percorsi e che ha origine nelle ragioni stesse che li animano: da un lato, Hadot – sacerdote cattolico dal 1944 al 1952 – «cerca una spiritualità che vivifichi l’esistenza e permetta all’individuo di trascendere la sua egoicità» (p. 19); dall’altro, Foucault intende far progredire le proprie analisi intorno alle forme di soggettivazione/assoggettamento, mettendosi sulle tracce di possibili processi attraverso cui i soggetti si rendano capaci di riconfigurare in modo consapevole e autonomo il rapporto con se stessi e con il mondo. A tale eterogeneità di interessi devono essere ascritti i termini della composta polemica che Hadot conduce nei confronti di Foucault, in buona parte poggiante sul terreno fragile di malintesi e approssimazioni che Montanari prende in esame in modo chiaro e convincente.

È con questo stile comparativo che il percorso della ricerca è organizzato attorno a tre complessi tematici cui corrispondono altrettanti capitoli: la componente ascetico-spirituale dell’interrogazione socratica, il ruolo dell’epimeleia nel discorso platonico sull’anima, la declinazione terapeutica del pensiero ellenistico-romano. Nel quarto e ultimo capitolo, il confronto tra i due pensatori francesi verte sulle spiegazioni che essi forniscono dell’estinzione progressiva del filosofare inteso come “stile di vita”. Hadot motiva questo esito col fatto che, nel corso del medioevo, il discorso filosofico viene messo a servizio delle esigenze della teologia cristiana e svuotato del suo potenziale psicagogico. Dal canto suo, Foucault scorge nel “momento cartesiano” l’irruzione di un nuovo paradigma di pensiero che modifica in profondità le condizioni della relazione tra verità e soggetto di conoscenza: a quest’ultimo ormai non è più richiesta alcuna modificazione del proprio modo di essere, ma piuttosto la corretta adeguazione a “protocolli” epistemologici.

Il libro offre così un’agile mappatura che, pur non presentando spunti critici innovativi, costituisce uno strumento di studio utile soprattutto a coloro che desiderano avvicinarsi alle principali questioni inerenti alla spiritualità filosofica. Tuttavia, quando nel corso del capitolo conclusivo Montanari sostiene che il fenomeno della consulenza filosofica incarni la riattualizzazione delle antiche “pratiche di sé”, egli svolge una serie di argomentazioni in cui, a mio avviso, emerge un impiego improprio del pensiero foucaultiano. È opportuno, pertanto, soffermarsi su alcuni di questi passaggi, per evidenziare imprecisioni che, comunque, non vanificano l’efficacia complessiva dell’opera.

Dopo aver proposto un noto brano dove Foucault definisce il filosofare come il movimento con cui ci si separa «da ciò che è acquisito come vero»[1], Montanari scrive: «Nulla impedisce dunque di pensare all’eventualità-opportunità che la filosofia torni ad essere un processo sapienziale incentrato sul nostro rapporto con la verità e sulle possibili trasformazioni esistenziali che esso comporta» (p. 170). Fa poi seguire immediatamente una lunga citazione dall’introduzione a L’uso dei piaceri, in cui Foucault dichiara di aver sperimentato in prima persona un radicale «lavoro critico del pensiero su se stesso», forzando i propri limiti nel tentativo di «pensare altrimenti»[2]. È evidente che, secondo Montanari, questa “confidenza personale” che Foucault fa può essere impiegata come una sorta di viatico alla sua ipotesi-proposta; l’autore sembra cioè voler far passare l’idea che, in fondo, è lo stesso Foucault ad aver preconizzato la possibilità della consulenza filosofica, ovvero di un’attività che consisterebbe nella proficua messa in crisi della spontanea e ingenua filosofia che «noi tutti abbiamo» – stando all’affermazione di Popper citata a pagina 178.

Il problema è che in questo modo viene alterato il senso proprio di un elemento vitale per l’impresa di Foucault. Egli, parlando di un agire filosofico che investe le condizioni stesse del proprio darsi, si riferisce a quella «ontologia critica di noi stessi» che, in tutta evidenza, non ha nulla a che vedere con la chiarificazione individuale delle idee e dei giudizi con cui ciascuno interpreta se stesso e la realtà. Lo stesso Montanari riporta alcuni estratti da pagine in cui Foucault sostiene la necessità di praticare una «indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costituirci e riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo» – ma una tale indagine si realizza innanzitutto come percorso di precise ricerche e analisi[3]. Si fatica allora a comprendere come un siffatto compito possa essere scambiato con ciò che uno dei principali promotori italiani della consulenza filosofica – in un passo citato da Montanari a p. 179 – definisce «esercizio formativo-trasformativo» che «si configura come strumento efficace di intervento per tutti coloro che cercano di orientarsi nella propria vita personale, sociale e professionale»; dunque, con un modello di problem-solving “esistenziale” che, rispetto ad altri presenti sul mercato, si connoterebbe per la messa in gioco di competenze filosofiche. È bene chiarire che, avanzando simile osservazione critica, non intendo difendere una concezione prettamente accademica e cattedratica del filosofare, e quindi osteggiare altre sue possibili declinazioni sociali; più modestamente, sottolineo che il “lavoro filosofico” di cui parla Foucault non corrisponde all’attività riflessiva che eventualmente sarebbe condotta in uno studio di consulenza filosofica.

Oltre a questo, mi sembra vada riscontrato nell’ultimo capitolo almeno un altro elemento di seria problematicità. Sempre in accordo con ciò che l’autore scrive, il consulente filosofico, instaurando con il consultante «un dialogo franco in cui nulla deve restare implicito», si assumerebbe l’onere di far emergere «le possibili ragioni per le quali una determinata questione gli risulti problematica». Egli deve «domandarsi se tale questione sia realmente problematica o se appaia solamente come tale», ovvero chiedersi «se e in che modo essa possa essere viziata da una serie di credenze o precomprensioni scorrette» (p. 180, corsivi miei). Una tal pratica, tuttavia, è chiaramente sostenuta da quella volontà di verità di cui Foucault non ha mai smesso di denunciare la pericolosità. Se, infatti, l’obiettivo è «vagliare la correttezza e l’attendibilità» dello «specifico modo di ragionare» di ognuno (p. 178, corsivi miei), o – con le parole di Roberta De Monticelli – scavare nella vita «per portare alla luce il pensiero che la giustifica» (p. 181), allora la consulenza filosofica rientra appieno nella storia di quei giochi di verità (o regimi di veridizione) che, come Foucault ha ampiamente illustrato, estraggono una verità dagli individui al fine di poterli investire più efficacemente con pratiche di controllo e normalizzazione. In altri termini, si tratterebbe di un’offerta di “aiuto” costitutivamente animata dalla pretesa di “dire il vero” dell’esistenza singolare, esaminandola e giudicandola, per verificare se essa sia capace o meno di conseguire quel “benessere” che la consulenza filosofica deve pur aspirare a favorire (altrimenti non si capisce perché vi si dovrebbe ricorrere). Come in precedenza, anche in questo caso la dissonanza teorica è aggravata dal fatto che è Montanari stesso a riportare un brano che mal si presta alle sue esigenze argomentative. In apertura (p. 16), egli utilizza un frammento de L’ermeneutica del soggetto in cui Foucault dichiara di essere attratto dalle antiche pratiche «etopoietiche» perché in esse «il problema non è quello di scoprire una verità del soggetto, né di fare dell’anima il luogo in cui […] la verità dovrebbe risiedere, e neppure, infine, di fare dell’anima l’oggetto di un discorso vero»[4]. Ciò che Foucault non scorge negli “esercizi spirituali” dell’Antichità – cioè la volontà di verità – è però esattamente ciò che innerva la consulenza filosofica, almeno per come l’autore la presenta. Di nuovo, dunque, cade nel vuoto il tentativo di Montanari di utilizzare Foucault per legittimare la propria tesi.

In conclusione, vale la pena ripetere quel che ho affermato in precedenza, e cioè che il testo di Montanari ben si presta ad accompagnare lettori non specializzati a un primo incontro con tematiche tanto suggestive quanto fin troppo marginalizzate dalla filosofia accademica. Allo stesso tempo, tuttavia, ritengo che sarebbe una mancanza di onestà intellettuale – anzitutto nei confronti dell’autore – non rilevare gli “inciampi” in cui il testo incorre nelle sue tappe finali. 



[1] M. Foucault, Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 143.

[2] M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1998, p. 14.

[3] M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., pp. 226-228.

[4] M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 448.

 
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