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Arianna Lodeserto

Animali non umani nel pensiero di Michel Foucault


Recensione di Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo, n. 4/2013: Gli animali di Foucault, a cura di Ermanno Castanò e Lorenzo Fabbri, Novalogos/Ortica editrice (80 p.)


Pubblicato nel luglio del 2013, il numero 4 della rivista italiana di antispecismo Animal Studies si proponeva di avvicinare “gli animali di Foucault”. È passato più di un anno ma vale ancora la pena scriverne. Le questioni sono forse più attuali, il dibattito sull’antispecismo si fa ancora più aperto.

Esistono, gli animali “di Foucault”?

È certo: la questione non fu presa mai di petto dal filosofo francese. Eppure quei “luoghi in cui compaiono gli animali”, proprio come tanti altri temi latenti o problematiche non dichiarate, come tanti attrezzi ancora non identificati, poiché sepolti o incastrati nei profondi cassetti e polverosi cunicoli della sua fantomatica boite à outils, han messo radici nuove nei più disparati terreni del pensiero contemporaneo. I luoghi di riflessione sull’animalità, i densi paragrafi della sua “storia del rapporto fra l’umano e l’animale dal Medioevo alla modernità” permettono, come dimostra l’esperimento dalla rivista, di pensare ancora e meglio i diritti degli animali, i saperi biomedici e il biocapitale, l’assoggettamento dei corpi non solo umani, e in primo luogo la distinzione stessa tra animali umani ed “animali non umani”, l’intoccabilità tra i due regniche decide sempre e di nuovo i limiti delle infinite relazionipossibili tra l’animale e l’animale-uomo. Perché non è sempre “dal bordo oscuro del Cogito”, dal nostro non-essere animali che si definisce il soggetto, e le categorie che vogliamo siano i cardini dell’umano per poterci pensare meglio, e migliori?[1]

Se nella prefazione di Fabbri e Castanò si persegue un “modesto scopo”: ripercorrere e analizzare i luoghi, fondamentali e significativi, in cui il filosofo affrontò il mondo animale, agli autori selezionati dal comitato scientifico della rivista (Laura Bazzicalupo, Kelsey Borrowman, Matthew Chrulew e Dinesh Joseph Wadiwel) viene dato ampio spazio per osservare gli animali di Foucault più da vicino, interrogando la carne delle sue più note metafore, interpellandone il loro destino (nel pensiero degli eredi, in special modo Agamben, Negri ed Esposito) e mettendo in causa le cecità costitutive di alcuni sguardi filosofici che si vogliono “postumanisti” (perché non è sempre e soltanto l’umano, “la posta in gioco”).

È amministrando il binomio uomo/animale che nasce il biopotere, il quale si nutre non soltanto delle discipline mediche e anatomiche, ma anche e in special modo delle tecniche di governo della specie, del gesto epistemologico che separa il selvaggio da cui dobbiamo difenderci e la specie da sanare.E se «la definizione stessa della biopolitica come intersezione delle tecnologie di potere sui meccanismi biologici della vita si regge semanticamente sulla duplice asserzione di un’animalizzazione dell’uomo e di un assoggettamento dell’animale»[2], occorre reimpostare il tema dell’animalità a partire dalla sua ambivalenza. Un doppio movimento ha infatti da sempre agito alla base del progetto tecnico-governamentale: «controllare gli uomini in quanto specie vivente attraverso una naturalizzazione che li animalizza»[3]. E in seguito, il concetto-popolazione avrebbe potuto divenire l’operatore della massima animalizzazione dell’umano, animalizzazione che veicola una normalizzazione possibile, laddove «l’animalità è evidentemente intesa come ciò che dell’umano è disciplinabile, prevedibile e soddisfacibile»[4], come fondamento di una classificazione selettiva, per plasmare un animale governante e un animale governato. Se Foucault, nonostante la sua “sensibilità anti-umanista”[5], si è poi di fatto concentrato principalmente sul destino dell’umano nell’orizzonte governamentale da lui delineato, è pur vero che dalle sue analisi del potere pastorale si è giunti a riflessioni nuove su quella “pastoralità” che lega uomo e animale al dominio dell’animalità assoggettata.

Le analisi successive della governamentalità permettono di affinare la comprensione di come dominazione, biopolitica e tecnologia della violenza siano interconnesse e s’incrocino in differenti operazioni e “salvaguardie della vita”. Se il governo parrebbe avere come fine, a differenza della sovranità, “il generale benessere della popolazione”, ovvero un far del bene che stringe indissolubilmente salvezza e sicurezza [salut] nel dovere di servire il gregge fino al sacrificio dello stesso dio-pastore[6], a detta di Wadiwel Foucault resterebbe tuttavia imbrigliato nella romantica metafora del pastorato, non considerando tale paradigma come un preciso ma brutale modello di controllo. Wadiwel cita dunque Christopher Meyes[7] per porre l’accento sulla relazionalità violenta del pastore col gregge, e sottolineare chel’interesse per il gruppo, alla base del biopotere, si basa principalmente su una tensione ed una commistione di amore e violenza, di cura e massacro.

Ma questa tensione non era già stata individuata definendo la tanatopolitica come l’altra faccia del biopotere?[8] È anzi la stessa presa in cura della vita a consentire il massacro-macello, qualora la popolazione ne avesse bisogno, sosteneva Foucault. Del resto egli avrebbe sin dall’inizio, seppur rapidamente, definito la civilizzazione basata sul modello pastorale come «une des plus sanglantes», come una delle più violente e sanguinarie[9].

Da sempre espianti, da sempre destinate a versare sangue, le pecore e le capre sono stati i primi animali ad essere classificati, confinati e regolati per l’utilizzo umano. Wadiwel riporta nel suo articolo l’amara tecnica di eradicazione delle capre, che nel caso della “Great Goat War” è giunta persino a diventare una campagna in stile militare. «Nella vasta e intricata gamma di criteri per “l’amministrazione” delle capre, una tecnica in particolare combina le “vecchie” conoscenze derivanti dalla gestione del gregge con le tecnologie più avanzate nell’ambito della guerra aerea e del controllo biopolitico della popolazione»: la tecnica delle“capre di Giuda”[10]. Vestita di un radiocollare, la capra “di Giuda” viene usata come esca per localizzare i gruppi di capre selvatiche che sfuggono al controllo umano. Le capre sono particolarmente adatte al compito perché molto “socievoli”, e dunque la singola capra radiosorvegliata, ignara della sua missione, condurrà inevitabilmente dagli altri esemplari. Radunate le capre selvatiche e uccise tramite fucilazione, l’esemplare di Giuda viene lasciato libero, affinché possa continuare a svolgere il suo compito. Completata l’eradicazione, anche la capra di Giuda, che ha tradito la sua specie senza saperlo, viene localizzata, uccisa, e recuperato il radio-collare[11]. La tecnica infame, utilizzata per sterminare gli animali che minacciano la specie da proteggere e gli habitat da riservare all’uomo, deriva dalla gestione del gregge operata dal pastore, che addestrava un esemplare per condurre gli altri membri al macello.

Dopo tanti secoli, è forse ancora dalla comprensione non univoca del “modello pastorale” che bisogna ripartire per disiscrivere il vivente dalla prospettiva governamentale, la specie dallo specismo, l’umano dai meccanismi esclusivamente biologici, ma anche per riconcettualizzare il corpo animale, che è sempre il più “biologizzato”, inesorabilmente ridotto “a nuda vita”, eternamente abbandonato alla sua biologia[12]. Un passo ulteriore richiederebbe di pensare anche il “corpo-lavorante” dell’animale, riconoscendo le forme non umane di lavoro, e dunque di alienazione[13]. Un femminismo radicale, come quello di Kelsey Borrowman, impone infine di ripensare e svincolare non soltanto l’asse umano/animale ma anche l’asse maschio/femmina. L’immagine di un corpo ungendered permetterebbe infatti di analizzare le continuità del corpo che non si prestano a divisioni binarie, cominciando, o ricominciando, non dai binomi ma dall’indistinzione, afferma Borrowmann, a partire dalla consapevolezza che «tutti i corpi sono in gioco». Se teniamo in conto «che i corpi implicati nel biopotere non sono esclusivamente umani e che il corpo stesso sta cambiando per via di questo sapere e di queste pratiche», potremmo pensare un corpo vivente al di là delle relazioni di eguaglianza e differenza, reinterrogando «il tumulto delle nostre relazioni con umani e non umani». Questo corpo,«che non è particolare ma generico, riconosce differenze tra corpi ma nota al tempo stesso il modo in cui tutti i corpi sono implicati»[14].

Secoli e secoli fa, la Chiesa prese in prestito la metafora pastorale per condurre le sue animelle smarrite sulla retta via. Poi il medico, animale ragionevole, adottò la metafora cristiana chiamando Giuda la pecora che inganna la specie realizzando un tradimento amministrato. Un giorno, certo inatteso, l’animale aspetterà nuovamente l’uomo al varco, sfuggito all’addomesticamento da parte dei valori e dei simboli umani, sfuggito anche alle eterne metafore animali. Bestialità non più “cosa da osservare”, non più altra faccia, mortifera e terrificante “della vita umana”, l’animale non tenderà un agguato, ma disporrà una “fuga in avanti dell’umanità”. Si potrà forse allora pensare un’animalità «che non si pone alle spalle del percorso dell’uomo, come punto di differenziazione assoluta o come marchio di governamentalità e domesticazione, in una posizione di regresso, ma si colloca come “figura” a-venire»[15], come prova incessante di un non-governo della specie.



[1] Cfr. E. Castanò e L. Fabbri, Prefazione. Foucault e gli animali, in Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo, n. 4/2013: Gli animali di Foucault, a cura di E.Castanò e L. Fabbri, Novalogos/Ortica editrice, p. 12.

[2] Ivi, p. 9.

[3] L. Bazzicalupo, Animalità: il crocevia del pensiero di Foucault, in Animal Studies, cit., p. 22.

[4] Ibidem.

[5] E. Castanò e L. Fabbri, Prefazione, cit., p. 9.

[6] Alla fine della lezione dell’8 febbraio del corso di Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, si esplicitava il paradosso morale e religioso del pastore: egli avrebbe sacrificato una pecora per salvare il gregge ma pure tutto il gregge per salvare una pecora. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil-Gallimard, Paris 2004, p. 133.

[7] C. Meyes, The Violence of Care. An Analysis of Foucault’s Pastor, in Journal for Cultural and ReligiousTheory, 11:1, 2010.

[8] Il bio-potere ha potuto esercitare il diritto di guerra e di omicidio, benché si tratti del diritto di una guerra non condotta in difesa del sovrano (questione giuridica), ma di intere popolazioni (questione biologica). M. Foucault, La tecnologia politica degli individui, in AA. VV., Un seminario con M. Foucault. Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 137.

[9] M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 134.

[10] D.J. Wadiwel, Il capro di Giuda. Una rilettura della governamentalità di Foucault, trad. it. di E. Giuliana, in Animal Studies, cit., p. 43.

[11] “Use of Judas Goats”, di T. Sharp e G. Saunders, qui.

[12] «Ciò che andrebbe riconosciuto non è solo che l’umanità si produce attraverso l’opposizione all’animalità, ma anche che questa nozione di animalità (come mera vita) è essa stessa un effetto di questa opposizione, nella quale gli animali sono ridotti a uno stato abietto, sia a livello epistemologico che ontologico». M. Chrulew, Gli animali nella biopolitica, fra Agamben e Negri, trad. it. di E. Giuliana, in Animal Studies, cit., p. 68.

[13] Per esplicitare la sua critica a Negri-Hardt, che non si soffermano sulle forme non umane di lavoro, Chrulew utilizza N. Shukin, Animal Capital. Rendering Life in Biopolitical Times, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, e B. Noske, Beyond Boundaries, Black Rose Books, London 1997, pp. 18-20. È un’ignoranza alquanto comune, dal momento che solo l’Inghilterra, a quanto mi risulta, ha ufficialmente concesso dei diritti di base agli asini, animali-lavoratori. Auguriamo la stessa sorte ai cavalli “delle botticelle” di Roma.

[14] J. Borrowman, Domesticazione transpecifica e riconcettualizzazione del corpo biomedicalizzato, trad. it. di S. De Sanctis, in Animal Studies, cit., p. 41.

[15] L. Bazzicalupo, Animalità: il crocevia del pensiero di Foucault, cit., p. 28.

 
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