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Diego Melegari

Forme e verità di un percorso ipotetico


Recensione di Stefano Righetti, Letture su Michel Foucault. Forme della “verità”: follia, linguaggio, potere, cura di sé, Liguori Editore, Napoli 2011 (128 p.)


Recentemente, in un libro di estrema ricchezza e originalità, Diogo Sardinha ha sostenuto la legittimità di interpretare i testi foucaultiani come “opera filosofica”, dotata di una specifica forma di sistematicità, contro la posizione dominante che vorrebbe ridurli a sedimentazioni di uno sconnesso e affascinante “percorso intellettuale” (cfr. D. Sardinha, Ordre et temps dans la philosophie de Foucault, L’Harmattan, Paris 2011). È certamente in questa schiera maggioritaria che si inscrive anche il lavoro di Stefano Righetti: ricostruzione del percorso foucaultiano che, per l’agilità del testo, potrebbe al limite essere scambiata anche per un’introduzione all’autore. In realtà, tali sono gli elementi di novità introdotti da Righetti nell’esercizio di questa particolare declinazione degli “studi foucaultiani” che, man mano che si procede nella lettura, si rende evidente come un giudizio critico sui meriti e sui limiti del volume non possa accontentarsi di valutare l'originalità dei risultati interpretativi ottenuti, ma sia condotto a trasformarsi in interrogazione radicale sulle condizioni e sulle prospettive filosofiche della nostra stessa attualità. Cosa significa, infatti, ricostruire il percorso intellettuale di un autore come Foucault? Il libro risponde guardando agli snodi del percorso foucaultiano sullo sfondo del confronto con altre grandi figure: Blanchot, Bachtin, Lyotard, Hadot. Perché il confronto? Perché con questi nomi? Si può comprendere facilmente che non si tratta di personaggi di una biografia intellettuale: essi non rispondono né al criterio dell’incontro né a quello delle influenze. Com’è noto sarebbe difficile esagerare il peso esercitato dalla scrittura di Blanchot sul Foucault degli anni Sessanta, e fortemente limitante ridurre a mero commento letterario un testo come Il pensiero del fuori, dedicato allo scrittore francese. All’altro estremo, è altrettanto difficile rintracciare il nome di Lyotard negli scritti foucaultiani (compare ad esempio, insieme a Deleuze e Guattari, nell’ambito di un passaggio sullo strutturalismo in La vérité et les formes juridiques, in Dits et écrits, vol. II, Gallimard, Paris 1994, p. 542), mentre pochi e ironici sono i riferimenti, opportunamente ricordati da Righetti, alla nozione di “postmoderno”. È naturale, quindi, che i confronti proposti dall’autore assumano tonalità differenti, che vanno da un preciso esame critico nel caso di Blanchot a sguardi meno aderenti, che si mantengono lontani dal testo foucaultiano anche per diverse pagine, per poi ritornarvi, fermandosi a volte su un solo passaggio, una sola suggestione. Questo andamento può inizialmente lasciare perplesso il lettore, soprattutto quello più avvezzo alla minuzia e alla mole raggiunte dalla letteratura critica sul filosofo. Perché, infatti, scegliere di affrontare il pensiero di Foucault come un percorso intellettuale e poi imboccare così frequentemente diramazioni, per di più apparentemente poco giustificate dai testi?

Crediamo di non fare torto all’autore nel leggere in questa struttura le conseguenze di una scelta fondamentale del libro, a partire dalla quale diventa effettivamente possibile disporre in costellazione i nomi sopra elencati e comprendere il carattere teorico e, al contempo, profondamente etico e politico dello sforzo di Righetti. Sono proprio le prime righe dell’introduzione al volume a fornirci un’indicazione chiara: «L’eredità di un pensiero è anche la sua più intima verità. Ciò che ha lasciato dietro di sé e che ha fatto presagire aldilà, e oltre, il proprio discorso. Se lo studioso ha dunque un compito, oltre a quello accademico, con cui rendere la prospettiva di un autore, quello di interpretare il futuro possibile di un pensiero, tracciandone come su un foglio le linee immaginarie della sua ipotetica proiezione, diventa allora il suo impegno più stimolante» (p. 1). Costruire questo tempo, il “futuro possibile” di un’opera, e regolare su di esso la propria indagine, significa ridefinire costantemente, senza garanzie, il punto di equilibrio tra forzatura e rispetto di un pensiero. Il confronto con altri autori diventa, allora, prima di tutto un modo per concretizzare e sostenere una scommessa di questa portata. Non è detto che si tratti dell’unica soluzione possibile o della migliore, ma, in ogni caso, è chiaro che il tentativo non potrà essere valutato esclusivamente con i parametri dell’approfondimento dei temi trattati o della completezza e coerenza del quadro fornito, ma sulla base della sua capacità di condurci a un punto in cui diventi possibile domandare apertamente in che misura il pensiero studiato «può esserci da guida» (p. 4). A partire da questa prospettiva, quindi, alcune operazioni interpretative appariranno non solo maggiormente legittime, ma dense di significato per l’ontologia del nostro presente, un presente dopo Foucault.

Prima di tutto, le discontinuità nelle quali varrà la pena addentrare lo sguardo non saranno necessariamente quelle più visibili, né quelle di cui è già evidente il peso delle conseguenze sul percorso effettivamente svolto dall’autore. Righetti, ad esempio, mostra come lo stesso rapporto con Blanchot sia giocato fin dall’inizio attraverso distanze e spostamenti. Lo scrittore, infatti, non aderirà mai a quell’«identificazione della scrittura (e perfino della scrittura di Nietzsche) con la follia» (p. 17), in cui il Foucault di Storia della follia, ma anche dello scritto dedicato a Hölderlin, Le “non” du père, cercava un vuoto ove potessero riecheggiare la «con-fusione» e il «caos originari». D’altra parte, l’autore indica opportunamente ne Il pensiero del fuori «un limite e una sorta di confine» rispetto all’ipotesi foucaultiana di «un rapporto positivo tra il dionisiaco e la letteratura e tra la letteratura e il linguaggio originario» (p. 22). Il punto d’approdo del viaggio oltre questo confine sarà il ritiro della funzione di “controdiscorso”, precedentemente attribuita alla parola letteraria, tanto che in un’intervista del 1970 alla rivista giapponese “Bungei” Foucault potrà ritenere esaurita la «pura illusione» della trasgressione letteraria «attraverso una specie di avvilimento o attraverso la grande forza di assimilazione che la borghesia possiede» (citato alle pp. 42-43). In questo passaggio, che si gioca attraverso la ben nota sequenza che dall’indagine epistemica porta a quella sull’ordine del discorso e sulle configurazioni di sapere-potere, l’autore ha il merito di sottolineare lo scarto tra Le parole e le cose e l’Archeologia del sapere, opera in cui, se da un lato l’archeologia del testo del ‘66 è ricondotta a una più generale analisi del “discorsi” come “pratiche”, dall’altro si tralascia definitivamente l’idea di un «linguaggio originario», il cui “essere” sarebbe espresso dalla letteratura «al di là o al di sotto del linguaggio razionale dell’ordine» (pp. 38-39). Questo abbandono della dimensione “originaria”, espressa dalla follia e reinvestita nella ripetizione infinita del linguaggio letterario, non è meno decisivo per il nostro sguardo attuale dello strano tentativo di “coerentizzazione” metodologica tentato dall’Archeologia del sapere, tentativo che, come è noto, di lì a poco avrebbe lasciato spazio a una ridefinizione complessiva della ricerca foucaultiana. Ci si può solo rammaricare che l’autore non chiarisca con maggiore precisione teorica cosa possa significare parlare di “origine” per il primo Foucault e in che rapporto questa dimensione, certamente sotterranea rispetto alla lettera foucaultiana, stia con quella espressa nelle nozioni, più esplicite, di “esperienza fondamentale” e di “ordine”. La ricostruzione di Righetti, invece, insiste fortemente ed efficacemente su come, alla fine degli anni Sessanta e proprio a partire dalla riflessione sui rapporti tra letteratura e linguaggio, maturino in Foucault una consapevolezza e, quindi, una necessità di riproblematizzazione che sarebbe legittimo proiettare fino agli ultimi scritti sull’estetica dell’esistenza e sul “coraggio della verità”. “Proiezione” per la quale occorrerà, quindi, scegliere una superficie rispondente alle urgenze del nostro presente.

Anche su questo punto la risposta fornita dal libro di Righetti è chiara: è soprattutto attraverso un confronto con il postmoderno che il pensiero di Foucault può davvero esserci da guida. In quest’ottica, tutto il percorso avviato dopo l’Archeologia del sapere e, a maggior ragione, dopo La volontà di sapere e nei corsi al Collège de France, può essere ripensato come un tentativo «di “aprire” e modificare la struttura» del sistema, senza riattivare l’immagine marxista della rivoluzione, schema storico-politico di trasformazione complessiva di cui, come è noto, Foucault interrogò a più riprese la desiderabilità (cfr. Le savoir comme crime, in Dits et écrits, vol. III, cit., p. 86; Inutile de se soulever?, ivi, p. 791). Confrontare Foucault e il postmoderno, infatti, significa essenzialmente far reagire tra loro due esperienze di pensiero maturate nel vuoto lasciato dall’idea di “Rivoluzione”: quell’«alternativa “pura” al sistema» che alla fine degli anni Settanta, scriveva Lyotard citato da Righetti, «tutti sappiamo […] gli assomiglierebbe», ma anche quella che, suggerisce Foucault, si intreccia alla costituzione stessa di una modernità che continua a lambire l’attualità. Si tratta, in fondo, di un’evidenza, ma, coerentemente con Foucault, Righetti non si stanca di smuoverla, sottolineando l’eterogeneità tra queste due morti del “mito” rivoluzionario: «le lotte sono localizzate per Foucault non solo perché è venuto a mancare l’orizzonte di un principio universale [una “grande narrazione”, nei termini di Lyotard], ma perché le relazioni di potere hanno disposto gli individui in funzione dei rapporti di forza» (p. 101). Ciò significa non solo che è sempre possibile che, a partire da queste lotte, si crei nuovo consenso (nozione che, quindi, sarebbe lontana dall’essersi semplicemente dissolta nella performatività del linguaggio tecnico e nel gioco destabilizzante della paralogia, come vorrebbe Lyotard), ma anche che l’esperienza rivoluzionaria, intesa come “entusiasmo” kantiano o come varco attraverso cui, nella sollevazione, «la soggettività […] si introduce nella storia» (Inutile de se soulever?, citato alla p. 103), continui a interrogare la parzialità e la molteplicità delle lotte. Righetti esprime tutto questo in un passaggio denso e che andrebbe forse meglio argomentato (soprattutto alla luce della fin troppo netta contrapposizione tra “sollevazione” e “rivoluzione”, operata proprio da alcuni dei testi citati), ma che non può non colpire per il legame che traccia tra la distanza di Foucault rispetto all’idea di un semplice tramonto del moderno e la strana persistenza del tema rivoluzionario oltre il suo esaurimento:

«Sulla scorta della riflessione kantiana, il postmoderno è per Foucault sempre “moderno”: l’Aufklärung fornisce alla riflessione foucaultiana tanto il piano di sviluppo per le relazioni di potere (l’avviarsi delle diverse forme di dominio), quanto il modello della rivoluzione, con cui ogni lotta e ogni resistenza potranno sempre ricominciare» (p. 101, corsivo mio).

Diversa è, infine, la modalità con cui Foucault e il postmoderno pensano l’apertura della struttura: se il secondo, soprattutto con la nozione lyotardiana di paralogia come “mossa” destinata a variare le regole di funzionamento del gioco, arriva a un’idea di innovazione come “instabilità generalizzata”, coglibile in termini esclusivamente “estetici” (pp. 2-3), Foucault mostra la contingenza delle strutture di sapere e potere nel loro costituirsi attraverso differenti declinazioni del rapporto tra soggetto e verità. È per questo che, laddove Lyotard contrappone l’invenzione della paralogia al sistema performativo, Foucault può vedere «una più profonda co-appartenenza fra il momento della libertà e quello della normalizzazione» (p. 97), già a partire dall’obbligo di “dire il vero” che egli si rifiuta di separare, come invece fa Lyotard, dalla pragmatica scientifica. Questo si traduce, in termini storici, nell’affermazione di una «sostanziale continuità del moderno» e nella parallela estensione a «tutta la modernità» di aspetti che Lyotard ritiene propri del postmoderno. Ma il modo con cui l’autore imposta il confronto con Lyotard permette in primo luogo di riprendere la traiettoria tratteggiata sul finire degli anni Sessanta, con l’abbandono dell’idea di “linguaggio originario”, e di proseguirla attraverso gli anni Settanta e le indagini sulle relazioni di potere, sulle discipline e sulle pratiche governamentali. A metà di questo percorso, l’autore propone una raffinata analisi del particolare strutturalismo valorizzato da Foucault nei tardi anni Sessanta, non solo come metodo indirizzato, all’interno di specifiche discipline, a reperire forme e relazioni sostanzialmente invarianti, ma come «strutturalismo generalizzato» e volto al presente, all’analitica dell’oggi (p. 48). Questa attitudine teorica, che sfocerà nell’attenzione per i procedimenti di costituzione dei discorsi nell’Archeologia del sapere, è utilmente avvicinata da Righetti alle ricerche condotte nell’ambito del formalismo russo degli anni Venti, fino a Jakobson e alla scuola di Praga, basandosi non solo su precise indicazioni in questo senso da parte dello stesso Foucault, ma anche su un interessante contrappunto con la critica al formalismo formulata da Bachtin. Da un lato l’argomentazione insiste sulla differenza tra la nozione di “atto di parola” in Bachtin e quella di “enunciato” in Foucault, alla luce di una diversa valutazione non solo del ruolo da riservare alla “coscienza”, ma anche del problema della “visibilità” del linguaggio (p. 65). Dall’altro, attraverso questo détour, si rende pensabile un’altra sfaccettatura del carattere “postrivoluzionario” del pensiero foucaultiano. Il libro, infatti, valorizza le poche indicazioni che Foucault offre a proposito del formalismo russo, della sua repressione in epoca staliniana, e delle analogie tra questo passaggio storico e la reazione dell’intellettualità marxista francese all’innovazione strutturalista, nei termini di «rivendicazione di una continuità estetico-politica», interpretazione che non può che stridere con le letture sedimentate della critica foucaultiana alle pretese rivoluzionarie: «si tratta di una rivendicazione di vicinanza, da parte di Foucault, nei confronti di una teoria rivoluzionaria che aveva influenzato le avanguardie estetiche di inizio Novecento, ma che soprattutto aveva accompagnato, in Russia, la “Rivoluzione d’ottobre”» (p. 57). Anche in questo caso, al di là delle precisazioni che andrebbero fornite rispetto a un’affermazione come quella riportata, il merito di Righetti è quello di tendere il discorso ricostruttivo fino al punto di rendere più visibile un problema storico e teorico che a volte emerge, in ombra o in subitanee focalizzazioni, nelle interviste, negli interventi e nei corsi foucaultiani: quello del rapporto con la costellazione epistemica, estetica e politica del Novecento. Infatti, insieme alle riflessioni sul ruolo dell’intellettuale, ad alcuni passaggi di Bisogna difendere la società e, soprattutto, di Nascita della biopolitica, la valorizzazione del formalismo costituisce indubbiamente uno dei lampi gettati su quello che, nella complessa trama delle analisi di Foucault, rimane una sorta di punto di rarefazione, ma probabilmente anche di inconfessata posta in gioco, del suo pensiero di fronte al secolo della politica “ideologica” (categoria aborrita, come è noto, dal filosofo francese, sul piano esplicativo, prima ancora che su quello politico). Non è escluso, dunque, che un radicale spostamento dello sguardo teorico e politico rispetto a questa decisiva soglia temporale sia una delle “proiezioni” della traiettoria foucaultiana oggi divenute possibili anche a partire da libri come quello di Righetti.

In ogni caso, alla fine degli anni Sessanta Foucault avrebbe avuto, secondo l’autore, «ben chiaro come la risposta estetica non sia più sufficiente» e come occorra «prendere atto che il sistema ha ormai cambiato rapidamente le proprie regole e i propri obiettivi, riuscendo a impadronirsi anche delle risposte che il postmoderno aveva, nel frattempo, elaborato» (p. 4). È su questa base che l’ultimo Foucault sarebbe arrivato, con il concetto di “cura di sé” e con l’attenzione per la parrēsia cinica, all’idea che l’estetico debba essere «chiamato a incarnarsi nuovamente in un corpo attivo […] in grado di dare forma anche a una nuova soggettività critica» (p. 4). Nessuna estetica, dunque, che non sia anche etica. A questo proposito, il testo si sofferma sulle differenze rispetto alla riflessione di Pierre Hadot e sul rimprovero da egli rivolto a Foucault per quella che sarebbe un’interpretazione eccessivamente individualistica, legata al clima culturale degli anni Sessanta e Settanta, degli esercizi spirituali dell’Antichità, i quali avrebbero potuto essere meglio compresi nei termini di “saggezza” piuttosto che di “estetica”. Righetti riconosce il rapporto tra le istanze individualistiche degli anni Settanta e l’elaborazione foucaultiana sulla cura di sé, ma insiste sulla valutazione sfaccettata offerta da Foucault a proposito della contraddizione, presente nella cultura antica, tra “scelta individuale” e “generalizzazione della morale” (p. 121) e, soprattutto, rimarca come la vera posta in gioco di queste riflessioni foucaultiane fosse la funzione critica della filosofia rispetto al potere. Questa volta l’esaurirsi delle «idee collettive» e delle «utopie della storia» viene colto dal lato del carattere «localizzato e anarchico» delle rivendicazioni politiche contemporanee contro le violenze e le inerzie del sistema, in virtù di «un’idea di comunità molto più ristretta e provvisoria» (p. 125). Così, le modalità con cui Foucault interroga la parrēsia greca e la cura di sé tardo-antica forzano la loro stessa matrice individualistica e diventano, agli occhi dell’autore, modelli attraverso cui l’individuo può tornare a pensare il proprio rapporto con la comunità alla quale appartiene. Come è facile capire, ci stiamo muovendo oltre il lessico concettuale foucaultiano, nello spazio di un altro tra i possibili sviluppi ipotetici del suo pensiero. Anche in questo caso, se si può rimproverare qualcosa all’autore non è, a nostro parere, di avere compiuto questo gesto, quanto di non avere chiarito sufficientemente la prospettiva filosofica che ha guidato la sua scelta e che, di conseguenza, dovrebbe condurre alla critica rispetto a quanto, nei testi foucaultiani, giustifica altre proiezioni, altre eredità. Ad esempio, è di certo interessante rilevare, come fa l’autore, un carattere “dualistico” nella tematizzazione foucaultiana dei rapporti individuo-potere (p. 91), ma, data per buona la diagnosi sull’esaurirsi della prospettiva rivoluzionaria, occorrerà allora mobilitare nuovi concetti per comprendere cosa possa significare un dualismo moltiplicato e localizzato, una volta che lo stesso Foucault ha chiaramente rifiutato una descrizione della lotta in termini di antagonismo tra due parti (Non au sexe roi, in Dits et écrits, vol. III., cit., p. 265). Allo stesso modo, introducendo un termine sostanzialmente estraneo a Foucault come quello di “comunità”, non si potrà tacere sul fatto che, per quanto localizzata e anarchica, esso rimandi a pratiche di “istituzione” e di “rappresentazione” (se non di rappresentanza), per pensare le quali difficilmente troveremmo modelli nell’etica foucaultiana (più legata al momento dello smarcamento, della possibile déprise, dai codici culturali, erede, forse, di quegli “eventi radicali” in cui un’intera cultura si discosta dai propri codici; cf. rispettivamente L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 34-36, e Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1996, pp. 10-11). Insomma, la scommessa di leggere l’intero percorso foucaultiano a partire dal problema di come si possa pensare il mutamento nel sistema una volta venuta meno la prospettiva rivoluzionaria, ovvero l’ipotesi di un mutamento globale dell’ordine esistente e dell’istituzione di un nuovo ordine, di una nuova comunità, imporrebbe l’apertura di una serie di domande, filosofiche e politiche, che probabilmente non possono essere esaurite dalla continuazione indefinita della sola traiettoria foucaultiana. Si tratta, ovviamente, di un’esigenza che non tocca qualsiasi lavoro che voglia occuparsi di Foucault o della valutazione critica della sua opera, ma che non può non esserci restituita come compito da testi, come quello di Righetti, che pongono al pensiero foucaultiano il problema della sua eredità e persino della sua possibile funzione di “guida”.

Infine, come recita il sottotitolo del volume, la follia (o meglio ciò che, attraverso di essa, costituisce per la razionalità moderna la traccia del suo rapporto a un “caos originario”), l’infinita ripetizione e moltiplicazione del linguaggio, i giochi di potere e le pratiche della cura di sé costituiscono, per l’autore, “forme della ‘verità’”. Tra i pregi del testo e del metodo comparativo utilizzato c’è sicuramente quello di rimandare le discontinuità nel pensiero foucaultiano alla differenza tra queste forme, evitando di cadere nel più paradossale e frequente errore delle sue ricostruzioni in termini di “percorso intellettuale”: quello di attribuire uguale efficacia critica, diremmo – con l’ultimo Foucault – un identico “reale” filosofico, a tutte le sue fasi. L’argomentazione di Righetti non nasconde, invece, una valutazione positiva del rapporto istituito tra verità e cura di sé, estetica dell’esistenza e parrēsia, come risposta agli scacchi subiti dalle precedenti “formalizzazioni”, scacchi da intendersi, prima ancora che come difficoltà teoriche, in termini di possibilità di riassorbimento da parte del “sistema” di ciò che si riteneva elemento di rottura. Resta aperto, tuttavia, il problema filosofico classico di come regolare la relazione tra il singolare e il plurale utilizzati nella formula “forme della ‘verità’”, una volta escluso, ovviamente, qualsiasi rapporto di fondazione e di esternità tra i termini. Le diverse forme registrano diverse pratiche costitutive di un medesimo “effetto-verità”, compossibili semplicemente perché relative ai differenti piani dell’episteme, del potere e del rapporto a sé? Oppure sono in gioco diverse idee, al limite conflittuali, della “verità” stessa e del suo ruolo nella razionalità occidentale? Se questa “verità” eccede la variazione delle sue forme, lo fa come sedimentazione di una “volontà di verità” che reggerebbe tutto il nostro sistema di esclusione e di polizia dei discorsi (Ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, p. 17), come “verità-evento” e “verità-folgore” (Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, p. 213), o, infine, come nucleo irriducibile del coraggio nella critica, nel rifiuto e nella denuncia (come appare nella valorizzazione dei cinici)? Oppure la “verità” sarà, per così dire, il piano sul quale si consumano di volta in volta entrambe queste eccedenze, la chiusura del sistema e la sua rottura, così come la modernità è, essenzialmente, normalizzazione e libertà? E davvero l’approccio foucaultiano offre strumenti filosofici del tutto nuovi rispetto al pensiero dialettico e, al limite, a quello religioso per pensare la coappartenenza di queste due “forme”? Nel presentare tutta la sua opera precedente come tentativo di abbordare «un po’ alla cieca e frammentariamente» la stessa «impresa di una storia della verità», Foucault scrive che «il viaggio ringiovanisce le cose e invecchia il rapporto con se stessi» (L’uso dei piaceri, cit., p. 16). Al viaggio effettivamente condotto corrisponde, infatti, la verticalità del rapporto a sé. Per un viaggio “proiettato” oltre il suo punto di arresto, quel viaggio che Letture su Foucault ci invita coraggiosamente a intraprendere, occorre ancora immaginare lo spazio teorico del suo rapporto ad altri e ad altro.

 

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