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Arianna Sforzini

Una politica della filosofia


Recensione di Sandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, DeriveApprodi, Roma 2014 (208 p.)


«Che cos’è pensare ?»[1]. Cosa può significare fare filosofia oggi, in un mondo che ha perso la fiducia nei grandi ideali come negli universali con cui la tradizione filosofica, da secoli, ha identificato lo spazio del proprio esercizio? Sandro Chignola, raccogliendo in volume sei dei seminari tenuti negli ultimi anni sul pensiero di Michel Foucault[2], in Italia e all’estero, cerca di proporre delle piste di risposta a queste domande, tanto attuali quanto difficili da maneggiare senza cadere in polemiche sterili o riduzionismi di ogni sorta. Domande che richiedono prima di tutto il coraggio di guardare al presente per ciò che è, senza limitarsi a una constatazione di realtà ma interrogando profondamente il modo del nostro rapporto a esso, il valore che di fronte al presente assume il nostro lavoro di pensiero.

L’autore raccoglie la sfida, certo non scontata, di un Foucault filosofo. Il pensatore francese, si sa, ha sempre rifiutato ogni etichetta, tanto più quella così impegnativa di membro della classe accademicamente codificata dei filosofi di professione. Ha amato giocare, per tutta la sua vita, sui bordi dei saperi, sui confini delle discipline, là dove storia, filosofia, epistemologia, letteratura, si confondono nei loro tratti, nei loro volti. Foucault è stato un grande riattivatore del pensare “col martello” nietzscheano. Ha sempre considerato che il suo ruolo fosse piuttosto quello di rompere gli schemi, spezzare le consuetudini, mostrare i punti di differenza nelle storie delle verità che impediscono di guardarvi, poi, con gli stessi occhi di prima. Foucault è stata la grande «molotov» del pensiero occidentale degli ultimi cinquant’anni («un esplosivo efficace come una bomba e bello come un fuoco d’artificio»[3]). Eppure, in questo suo incedere “esplosivo”, ha cercato di dare una risposta alla domanda fondamentale della filosofia: «Che cos’è pensare ?». Cosa vuol dire oggi riprendere il lavoro del pensiero sulle nostre forme di conoscenza del mondo, sui poteri che ci attraversano, sulle nostre modalità di essere e di esistenza? È allora proprio in questo intreccio indissolubile di pensiero e presente che risiede la forza del pensiero foucaultiano: la sua valenza critica, come ci mostra il testo chiave sull’Illuminismo[4], richiamato non a caso più volte da Chignola nei suoi seminari. E ciò che permette di tenere insieme potenza di rottura e portata filosofica è il valore radicalmente politico delle analisi foucaultiane: il suo concepire il pensiero (attraverso la sua storicità) come un’arma in una trama molteplice e attuale di relazioni di forza. Leggere «Foucault oltre Foucault», come Chignola si propone di fare[5], vuol dire allora saper riattivare proprio la politicità essenziale del testo foucaultiano: guardarvi come a «un esempio, uno dei più radicali, di un’autentica politica della filosofia» (p. 6). Qui la scommessa, riuscita, del lavoro di Chignola.

I sei saggi che compongono Foucault oltre Foucault mantengono volutamente un’impronta seminariale. Vanno letti come testi autonomi, non necessariamente nell’ordine proposto, e considerando ogni ripetizione concettuale come la sottolineatura di un nodo fondamentale della riflessione. Chignola si sofferma in particolare su quello che si è soliti indicare, con una buona dose di approssimazione, “l’ultimo Foucault”: i testi e i corsi elaborati tra la fine degli anni settanta e l’anno della morte, nel giugno 1984. Questa focalizzazione sugli ultimi lavori foucaultiani implica una duplice presa di posizione. Da un lato, Chignola considera le analisi che Foucault conduce alla fine degli anni settanta sulla governamentalità e sul liberismo come un momento specifico delle sue genealogie dell’attualità politica, distinto dalla riflessione sulle discipline così come da quella sul biopotere in generale. Chignola sottolinea bene, in più punti del suo discorso, come la storia delle tecniche di governo sia un modo attraverso il quale Foucault si interroga sullo spazio politico «postsovrano e postrappresentativo» (p. 109) nel quale ci troviamo a vivere: il tempo dei governati e dei governanti, della «governamentalizzazione» come forma di esperienza politica che non si adegua più al diritto, ma all’economia, e che quindi rompe definitivamente con i modelli statuali – quel re a cui non si è ancora «tagliata la testa»[6] – tipici del pensiero politico occidentale. Il governo non è una teoria ma una tecnologia politica, che si gioca «nella rischiosa, inospitale, soziale Umwelt della cooperazione di mercato e del conflitto degli interessi» (p. 85). Ma tale tecnologia implica anche, essenzialmente, di costruire se stessi come attori liberi delle dinamiche governamentali. «Governo è la prassi di una soggettivazione in costante rapporto con l’Altro da sé. Il divenire che trae il proprio ritmo da une relazione liberamente inferita dalla contingenza dei rapporti immanenti tra la singolarità e il mondo» (p. 85). Ed ecco il secondo punto chiave dell’analisi di Chignola: la riflessione di Foucault sulle tecniche di soggettivazione e le forme della soggettività etica nasce e si comprende in relazione alla tematica, innanzitutto e fondamentalmente politica, del governo. Governo di sé, governo degli altri: è in questo chiasma al centro degli ultimi corsi al Collège de France che Foucault comincia a pensare, con l’intuizione dell’attuale che lo caratterizza, la crisi del modello politico rappresentativo e la possibilità di un impegno politico “postdemocratico”. Il rapporto del pensiero alla verità non sarà allora ciò che l’intellettuale può rivelare, dall’alto del suo sapere, al potere o alla società, ma il travaglio rischioso e sempre aperto del domandare ai governanti, da governati, con quale e per quale verità pretendono di governare. Chignola propone a ragione di ripensare la parrhesia stessa come elemento di una conflittualità governamentale creativa, capace di sperimentare nuovi soggetti, nuove forme dell’azione politica. Un’«azione senza programma […] calata nel gioco strategico dell’attualità e caricata di un coraggio della verità che non si cura dell’impossibile» (p. 107). «La politica passa altrove» (p. 172).

In questo quadro generale, tre saggi colpiscono, nel testo di Chignola, per la loro novità. Il secondo, inedito (Fabbriche del corpo. Foucault, Marx), mette in relazione il pensiero di Foucault e quello di Marx a proposito della costruzione del corpo dell’operaio: corpo che viene messo letteralmente al lavoro, cui vengono sottratte energie vitali (i corpi non sono «par nature travail, ils sont plaisir, discontinuité, fête, repos, besoin, instants, hasard, violence, etc.»[7], dice Foucault) per alimentare il «mostro animato»[8] della produzione capitalista. La macchina del capitale ha bisogno di forze vive, ottenute attraverso una rigorosa “disciplinarizzazione” dei corpi viventi, dei loro tempi e dei loro spazi di vita, dei loro gesti più infimi. E tale disciplina dei corpi si ottiene attraverso saperi e tecniche che si innestano sulle dinamiche capitaliste pur non essendo di natura economica: le pratiche penali, pedagogiche, militari, pastorali, morali, ecc., che vanno a costruire quell’immensa “società disciplinare” ben descritta in Sorvegliare e punire, in cui l’anima diventa «prigione del corpo»[9], imbrigliamento della sua «énergie explosive»[10]. La domanda che si pone Chignola attraverso questo confronto tra i processi di costruzione e assoggettamento dei corpi in Marx et Foucault porta, ancora una volta, sull’attualità di tali analisi in una società che non è più disciplinare, punitiva, ma piuttosto liberale, governamentale, improntata alla valorizzazione di sé come “capitale umano” in reti relazionali ben più fluide e autonome – anche se forse non meno alienanti – del rigido spazio-tempo compartimentato della fabbrica. È allora in rapporto al nuovo corpo prodotto da questi dispositivi di governo e produzione, ai nuovi corpi migranti, precarizzati, in continuo movimento, che va ripensato lo spazio della critica e della lotta: «Si tratta oggi di pensare anche su questo piano – il piano della corporeità mobile, flessibile, precaria, globale e meticcia alla quale si interfacciano dispositivi governamentali di controllo e di valorizzazione – nuove tattiche di resistenza e di sottrazione» (p. 70).

Un’interessante via di riflessione su tali nuovi corpi, nuove resistenze e nuove forme di esistenza politica è proposta da Chignola nel quarto seminario che compone il suo testo (Koinōnikon zôon. Gli Stoici e l’altra modernità). Utilizzando l’Antichità non come serbatoio di soluzioni e risposte ai problemi dell’attualità ma come superficie di trasformazione, di rifrazione della nostra immagine, l’autore ritrova negli stoici una serie di concetti radicalmente altri rispetto alla tradizione della nostra modernità politica: una vita in società pensata al di fuori degli schemi istituzionalizzanti dello Stato (della polis aristotelica); un corpo concepito come forza di azione, molteplicità di forme che si fanno evento, e non come sostanza; una comprensione del reale radicalmente materiale, corporeo, che fa a meno delle essenze e pensa le cose – e l’uomo stesso – nella loro potenza di relazione; l’individuo che non è homo hominis lupus, come voleva Hobbes, né animale politico – cioè subordinato alle esigenze della polis –, secondo la definizione di Aristotele, ma koinōnikon zôon: vivente che è e costruisce comune secondo un’uguaglianza reale e non formale, estendentesi a tutta la cosmopolita comunità umana. Gli stoici ci aiutano quindi a pensare una politica nuova, irriducibile agli schemi di cittadinanza e di rappresentazione. Una politica che è «connessione, agencement, desaturazione dei “luoghi” del Politico. È invenzione di rapporti, moltiplicazione espansiva di processi di soggettivazione. È divenire, ininterrotta e autonoma costruzione di convenzioni dell’agire comune. […] [L]a storia di un’altra praxis» (p. 135).

Vi è infine un confronto apparentemente sorprendente su cui Chignola si è soffermato in diverse occasioni nei suoi interventi degli ultimi anni: quello tra Foucault e Weber, ben sintetizzato nel quinto saggio del volume (“Fantasiebildern”/“histoire fiction”. Weber, Foucault). Senza insistere troppo sui contradditori rinvii di Foucault a Weber, indicato ora come il teorico dell’ascesi intesa nel senso di una rinuncia a sé, ora come il rappresentante della modernità come razionalità unica e totalizzante, ora come esponente di un filone di pensiero critico che sia un’“ontologia del proprio presente”, e in cui Foucault stesso vuole inserirsi, Chignola cerca di comprendere se e come sia possibile mettere in relazione i metodi e i concetti dei due pensatori. Ritrova in particolare una possibile convergenza ai due livelli che abbiamo indicato come i fulcri della sua lettura foucaultiana: la riflessione sulle “tecnologie” del sé, sull’ascetica non tanto e non solo come rinuncia a parti di sé ma come insieme delle pratiche di «intensificazione della soggettività» (p. 169), in uno spazio di governo auto ed eterodiretto; la storicizzazione e l’immanentizzazione radicale delle categorie del pensiero, operazione volta certo non a sciogliere lo slancio verso l’azione in un relativismo nichilista, ma – come già in Nietzsche, riferimento chiave sia per Foucault sia per Weber – a spingere alla critica della nostra storicità, alla trasformazione libera di una realtà per cui la contingenza diventa un’occasione di invenzione e di creazione. L’“Idealtipo” weberiano non è allora un’essenza applicata alla storia, come sembrerebbe credere lo stesso Foucault. Si avvicina piuttosto, ci mostra Chignola, alla fiction foucaultiana: una pratica storico/filosofica che non intende ritrovare la verità del passato, ma cambiare, attraverso il passato, il nostro sguardo sulle verità di oggi. Fingere, nel senso etimologico del termine: creare, plasmare una materia informe; la fictio come strumento giuridico che permette di estendere e traslare dispositivi del diritto al di là delle loro sfere abituali. La posta in gioco della finzione è serissima: la capacità di pensare come potenza di interrogazione del proprio mondo e invenzione di un mondo nuovo, altro. In questo, secondo Chignola, Weber e Foucault possono ritrovarsi sulla stessa linea. Questo resta il compito fondamentale del lettore di Foucault, di chiunque voglia riprendere per sé il compito di una filosofia come pensiero politico dell’attualità. «Inesauribilità della vita e inesauribilità della problematizzazione» (p. 156).



[1] M. Foucault, Débat sur le roman, in Dits et écrits I, Gallimard, Paris 2001, testo n° 22, p. 367; trad. mia.

[2] Sandro Chignola ha pubblicato gli interventi di due di tali seminari per le edizioni Ombre Corte: P. Cesaroni e S. Chignola (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France (1981-1984), Ombre Corte, Verona 2013; S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al College de France (1977-1979), Ombre Corte, Verona 2006.

[3] M. Foucault, Io sono un artificiere, intervista del giugno 1975, in R.-P. Droit, Michel Foucault. Conversazioni, a cura di F. Polidori, Mimesis, Milano 2007, p. 45.

[4] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Dits et écrits II, Gallimard, Paris 2001, testo n° 339, pp. 1381-1397.

[5] Il titolo è ripresa e omaggio al testo di Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979.

[6] «Il faut couper la tête au roi et on ne l’a pas encore fait dans la théorie politique» (M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, intervista realizzata da A. Fontana e P. Pasquino, in Dits et écrits II, cit., p. 150).

[7] M. Foucault, La Société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, éd. B. Harcourt, Paris, Seuil/Gallimard, 2013, p. 236.

[8] Cfr. K. Marx, Das Kapital, I, 5, MEW, Bd. 23, p. 209.

[9] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, nuova ed. 1993 [2009], p. 33.

[10] M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2013, p. 236.

 

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