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Riccardo Antoniucci

L'onda e il monolite: il "post-strutturalismo" ha sepolto Marx?

 

Recensione di Isabelle Garo, Foucault, Deleuze, Althusser & Marx, Demopolis, Paris 2011 (432 p.)

 

Si legge nella quarta di copertina che questo lavoro «affronta in maniera nuova le opere di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Louis Althusser, ricollocandole nel loro contesto e lontano da tutti gli a priori». E dobbiamo crederci, perché, per la prospettiva che sceglie, il libro di Isabelle Garo risulta essere politico molto più di quanto non sia filosofico.

Nondimeno, la forza di questa prospettiva sta nella sua unità. Infatti, evitando il rischio di dispersione derivante dalla scelta di una molteplicità di soggetti, l’opera individua un punto di convergenza fra le tre letture di Foucault, Deleuze e Althusser, rappresentato da un altro “nome filosofico”, quello di Karl Marx: punto di convergenza che funziona allo stesso tempo come punto di partenza e come punto di arrivo. L’originalità dell’opera sta, infatti, proprio nella volontà di ricostruire e di esporre il rapporto che i tre pensatori, ancor più che le loro opere, hanno intrattenuto con la teoria di Marx. Non si deve tuttavia pensare all’ennesima riproposizione di un “confronto” fra autori o fra opere; procedimento che spesso non manca di produrre un certo effetto d’indistinzione tra gli stessi termini che si intende confrontare. Al contrario, il lavoro di Garo assomiglia più a una sottile opera di misurazione: misurare la filosofia di Foucault, Deleuze e Althusser sulla teoria di Marx, è questo l’intento fondamentale. L’opera marxiana funziona, dunque, nel libro, come termine di paragone, e in tal senso è assunta come un insieme concettuale compiuto e monolitico. In effetti, non può dirsi estranea alla posizione di Garo una certa idea di canone marxiano, la cui giustificazione resta però fuori dall’orizzonte dell’opera.

 

Ora, la necessità di un’opera di misura del pensiero dei tre filosofi francesi su quello di Marx si fonda, per Garo, su una preoccupazione di carattere eminentemente politico: quella di ritrovare, nell’attuale congiuntura storica segnata dalla crisi della pratica e dell’ideologia neoliberale, un’alternativa allo stesso tempo teorica e pratica al capitalismo. Partendo dall’assunto che questa alternativa il pensiero di Marx l’abbia costituita fino al XX secolo, e nella convinzione dell’«intreccio permanente tra il filosofico e il politico», misurare le tre filosofie più legate alle esperienze politiche della sinistra della seconda metà del Novecento in Francia significa, allora, valutare la loro utilizzabilità politica nel XXI secolo.

Ma, in questa operazione, Garo non mette tanto in questione gli “effetti” delle tre opere sul contesto politico francese dell’epoca, quanto le “basi” del loro utilizzo più o meno esplicito (chiaramente esplicito nel caso di Althusser) dei concetti cardine della teoria marxiana, con l’obiettivo di segnare lo scarto di questi impieghi rispetto alle originarie definizioni marxiane. A questa analisi, per così dire “orizzontale”, se ne accompagna poi un’altra di tipo verticale o, come sostiene l’autrice, “genealogica”, che si interessa allo sviluppo dei tre universi teorici di Foucault, Deleuze e Althusser, concepito come un processo di progressiva determinazione e individualizzazione rispetto alla teoria di Marx.

Ed è proprio per porre le basi di questa seconda linea di esposizione che l’autrice fa precedere l’analisi vera e propria delle teorie di Foucault, Deleuze e Althusser da un capitolo a carattere storiografico che ha l’obiettivo di ricostruire la situazione politica e intellettuale francese all’epoca in cui le tre filosofie sono emerse e si sono sviluppate. Questa contestualizzazione preliminare mira a mettere in evidenza come il rapporto con il comunismo (come teoria e come pratica) sia stato fondamentale per questi tre autori che hanno vissuto la loro giovinezza durante e subito dopo la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto, per questa via si vuole mostrare la necessità di quei tentativi “eretici” che caratterizzerebbero le loro prospettive teorico-politiche, a partire dalla restituzione del quadro di «crisi montante del comunismo francese» (p. 14), tanto come ossificazione della teoria, ma ancor più come scacco delle forme di organizzazione dell’attività politica.

Questa è, in linea generale, la prospettiva del libro di Garo che, da un lato, giustifica la necessità storica delle tre opere e, dall’altro, dimostra la loro dipendenza dal marxismo e da Marx[1].

 

Gli elementi d’analisi che caratterizzano l’approccio di Garo si vedono esplicitamente all’opera nel capitolo su «Deleuze, il refrattario». Partendo dalla costatazione del permanente interesse deleuziano per Marx, pure realizzatosi secondo un percorso di lettura decisamente segmentato, l’autrice intende proporre una «genealogia teorico-politica dell’opera deleuziana» (pp. 183-184) che non può prescindere dal rapporto con Marx, nel tentativo di determinarne la praticabilità politica come alternativa al marxismo.

Il rapporto di Deleuze con il pensiero di Marx sarebbe così segnato dalla “trasversalità”, sempre assunta e rivendicata dallo stesso filosofo francese. Si potrebbe dire che Deleuze si sia sempre curato di mantenersi “un passo a lato” rispetto al marxismo, senza per questo mai rinunciare a un’attitudine critica rispetto allo stato di cose presente, continuamente nutrita dagli apporti teorici più eterogenei. Tuttavia, sostiene Garo, questa attitudine ha avuto come unico obiettivo quello di scavare lo spazio per un lavoro teorico originale, uno stile filosofico singolare che evitasse tutte quelle limitazioni dovute all’inserimento in una qualsiasi tradizione o scuola di pensiero.

L’opera di Deleuze risulta così essenzialmente metafisica ma – e in questo starebbe tutta la sua singolarità – comunque animata da uno spirito di critica che ne politicizza l’essenza. In altri termini, l’operazione del filosofo consisterebbe nel portare sul terreno ontologico le esigenze della politica, ottenendo così un corto circuito dal doppio effetto: politicizzazione della metafisica e “ontologizzazione” della politica, che però implica un’astrazione rispetto ai suoi contenuti.

I due momenti sono cronologicamente situabili. La battaglia ingaggiata contro la dialettica e la “riattivazione” di Nietzsche in chiave anti-hegeliana e rivoluzionaria, portata avanti da Deleuze fino al 1972, costituiscono il punto di partenza. «Nel contesto dell’epoca, optare per Nietzsche significa de facto combattere Hegel senza smettere di pensare a Marx» (p. 198), nota incisivamente Garo. In questo modo si rende possibile la definizione di un nuovo rapporto fra teoria e pratica che però, paradossalmente, può essere pensato solo sul terreno della teoria: una politica astratta. Quest’ultima trova la sua realizzazione, in un secondo momento, nelle due opere maggiori di Deleuze, scritte in collaborazione con Félix Guattari: L’Anti-Edipo[2] e Mille piani[3]. Opere che, secondo l’autrice, piegherebbero il nietzscheismo ancora astratto del primo Deleuze verso un orizzonte concreto, proseguendone però la logica anti-dialettica dell’affermazione. E non è un caso che su questo terreno la presenza di Marx si faccia allora più pressante.

In effetti, la proposta di un’«apologia della produttività spontanea», contenuta nei due volumi, si oppone nettamente alle analisi marxiane del regime di produzione come ciò che sempre implica una dominazione di classe. Questo rifiuto dell’analisi marxiana sulla dominazione di classe, derivante a sua volta dal rifiuto teorico della logica della contraddizione, è presentato dall’autrice, da un lato, come un “segno dei tempi”, nella misura in cui si ritrova in termini affini in quasi tutte le teorie del post-Sessantotto francese; dall’altro, come l’indice della distanza oggettiva di Capitalismo e schizofrenia dalle tesi marxiane, distanza che secondo l’autrice va letta in termini di opposizione vera e propria. In questo senso, la proposta “micropolitica” contenuta nei due testi, con il rifiuto del principio pratico dell’organizzazione degli interessi di classe che essa comporta, è da considerarsi realmente un’alternativa all’opzione comunista, che però perderebbe il senso del ribaltamento dello stato di cose presente. Per l’autrice, infatti, sul piano politico la proposta deleuziana non si riduce a nient’altro che a una «politica della fuga»[4] (p. 265) che non solo non riesce, ma che non si pone nemmeno più il problema del superamento del capitalismo come passaggio rivoluzionario globale e epocale. E così, conclude Garo, l’avventura teorica forse più legata alla sinistra francese di quegli anni si risolve infine in un processo di depoliticizzazione, impotente di fronte a quel sistema capitalistico che pure era stata capace di analizzare così acutamente e di assumere come punto di partenza teorico.

 


[1] Invertendo l’ordine di esposizione del libro, si seguirà prima la trattazione del pensiero di Deleuze e di Althusser, lasciando per ultimo il capitolo su Foucault, con cui l’autrice apre invece la ricerca.

[2] G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie I, Minuit, Paris 1972; trad. it. L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia I, Einaudi, Torino 1975.

[3] G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie II, Minuit, Paris 1980; trad. it. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia II, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1987 e Castelvecchi, Roma 2006.

[4] Su questa base Garo fonda la sua critica della più récente teoria politica di Toni Negri, nella misura in cui essa si rifà esplicitamente alle tesi deleuziane.

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