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Natascia Tosel

Deleuze, Foucault e Lacan: prospettive ontologiche, politiche ed etiche sui nuovi processi di soggettivazione


Compte-rendu de Frédéric Rambeau, Les secondes vies du sujet. Deleuze, Foucault, Lacan, Hermann Éditeurs, Paris 2016 (316 p.)


«Le devenir sujet est l’appel d’un sujet à venir» (p. 7): con queste parole, Frédéric Rambeau introduce il tema centrale del suo libro, interamente dedicato ai processi di soggettivazione che occupano oggi grande spazio all’interno del dibattito filosofico attuale. La riflessione che Rambeau porta avanti risulta di primario interesse per almeno due ragioni importanti: innanzitutto, egli non si limita a trattare un solo autore, bensì riesce a tenere insieme tre figure che sono tra le più significative dell’intero panorama filosofico contemporaneo, ossia Deleuze, Foucault e Lacan. In secondo luogo, l’autore mostra con grande precisione come proprio tali figure, spesso etichettate come strutturaliste e legate, perciò, alla celebre immagine della “morte dell’uomo”, siano fautrici, in realtà, di teorie che aprono le porte ad una seconda vita del soggetto, che prende la forma di processi di soggettivazione molteplici ed eterogenei. In tal modo, il soggetto non verrà più inteso come una sostanza pensante, bensì, rompendo con i canoni imposti dalla filosofia moderna, diverrà sinonimo di una potenza, al contempo, creativa ed incosciente. Questa torsione rispetto alla res cogitans cartesiana è frutto, in particolare, di tre operazioni che Rambeau chiama di «dissoluzione», di «radicalizzazione» e di «biforcazione», a ciascuna delle quali è dedicata rispettivamente una delle tre parti di cui si compone il libro.

La prima di tali operazioni, quella di dissoluzione, riguarda soprattutto l’ambito ontologico ed epistemologico e si pone come un tentativo di farla finita con la sostanzialità tanto del soggetto quanto della coscienza, che è stata spesso intesa come l’indice par excellence della presenza dell’elemento soggettivo. Nel primo capitolo viene analizzata, in particolare, la dissoluzione ontologica portata avanti da Gilles Deleuze, la cui filosofia, secondo Rambeau, offre al soggetto una seconda vita «crudele e passionale» (p. 19). Deleuze, infatti, già a partire dai suoi testi degli anni sessanta, quali Differenza e Ripetizione e Logica del senso, aveva tentato di costruire un campo trascendentale impersonale caratterizzato da una coscienza più larga del soggetto, in modo tale che l’intenzionalità non potesse più dirsi “egologica”, bensì, piuttosto, ontologica. Detto in altri termini, Deleuze dissolve il soggetto nell’essere, ma per farlo ha bisogno di pensare un essere che sia, al contempo, «disgiunto» e «difforme». Il primo elemento si traduce nella teoria deleuziana dell’univocità dell’essere, ripresa da Duns Scoto e declinata nell’affermazione di una continua individuazione e variazione che caratterizza l’interiorità stessa dell’essere. Se la differenza, infatti, è pensata come immanente a quest’ultimo, otteniamo allora un essere costituito dalla non coincidenza a sé, da un non rapporto, da una disgiunzione che lo rendono un processo, piuttosto che una sostanza. L’essere, dunque, si trasforma all’interno dell’ontologia deleuziana in un divenire che assume le sembianze dell’attualizzazione di un virtuale o, per dirlo con i termini di Differenza e Ripetizione, di una drammatizzazione dell’Idea. Tale disgiunzione dell’essere, però, si deve accompagnare anche ad una potenza deformante, che è propria del divenire e che nasce dalla critica che Deleuze rivolge alla nozione di rappresentazione. Egli, in particolare, rompe tanto con l’idea di un soggetto che percepisce, quanto con quella di un oggetto percepito. Una volta, infatti, che il soggetto in quanto coscienza è stato dissolto in una proliferazione di soggettività larvali, non è nemmeno più possibile pensare l’oggetto, kantianamente, come l’immagine prodotta dal lavoro armonico delle facoltà soggettive. Deleuze, al contrario, pensa ad un puro sentire impersonale, che non solo – come visto – dissolve il soggetto nell’essere, ma che deforma anche l’oggetto, trasformandolo nel frutto di un’esperienza schizofrenica che introduce le irregolarità della soggettivazione nel reale stesso. Questo sovvertimento della rappresentazione conduce, perciò, ad una distorsione patologica del reale, in cui è l’essere la fonte di ogni deformazione, ossia di ogni cambiamento del «punto di vista»: quest’ultima nozione, infatti, nonostante sia stata introdotta da Deleuze più tardi, soprattutto ne La piega, è in realtà di vitale importanza poiché viene inserita al cuore stesso dell’ontologia in quanto sinonimo di ogni soggettivazione interna all’essere.

Se Deleuze, dunque, iscrivendo il punto di vista direttamente all’interno della cosa stessa, apre nuovi spazi di soggettivazione immanenti all’essere, anche gli altri due autori protagonisti dell’opera di Rambeau, ossia Foucault e Lacan, si fanno promotori di una dissoluzione del soggetto che si traduce nell’affermazione di un’istanza di immanenza che apre nuove possibilità di divenire-soggetti. Le modalità di tale dissoluzione, però, sono differenti rispetto a Deleuze e riguardano, in particolare, le condizioni epistemologiche di conoscibilità e di visibilità del soggetto. Rambeau sceglie di prendere in considerazione le analisi che Foucault e Lacan hanno dedicato a Las Meninas di Velázquez al fine di mostrare come ambedue superino il soggetto, ma non – come si tende a pensare – attraverso una maggiore valorizzazione del linguaggio, ossia delle pratiche discorsive, da un lato, e della catena significante, dall’altro. Questa lettura “strutturalista”, infatti, manca di accuratezza, poiché sia per Foucault, sia per Lacan la dimensione del visibile non è riducibile a quella del discorso, come si evince proprio dalle loro riflessioni su Las Meninas. I due autori, però, puntano l’attenzione su elementi differenti del quadro di Velázquez: Foucault, che com’è noto dedica a quest’ultimo le bellissime pagine iniziali di Le parole e le cose, mostra come il dipinto produca un effetto di individuazione su chi lo guarda che non è riducibile né alla dimensione ottica e geometrica della visione, né a quella discorsiva della rappresentazione. Questo nuovo spazio di soggettivazione, però, viene immediatamente richiuso da Foucault, nel momento stesso in cui viene portato nuovamente in primo piano l’elemento dello specchio: se, infatti, quest’ultimo fosse assente, non sarebbe possibile identificare nessun soggetto né della tela presente all’interno del dipinto e di cui vediamo solo il retro, né degli sguardi che provengono dalla gran parte dei personaggi dell’opera. Al contrario, il piccolo specchio situato al centro del quadro ci mostra il riflesso di Filippo IV e della moglie Marianna, ossia dei presunti protagonisti tanto della tela che sta venendo dipinta, quanto dello sguardo della bambina Margarita, figlia della coppia regnante. In tal modo, Foucault reintroduce il soggetto all’interno della rappresentazione, puntando l’attenzione sulle sue condizioni di visibilità: il soggetto, infatti, non è latente e non si tratta di cercarlo dietro le apparenze, bensì, affinché appaia, è necessario metterlo in relazione agli enunciati e alle visibilità che costituiscono le sue stesse condizioni di esistenza. Las Meninas, dunque, è presentato da Foucault come la «seuil esthétique de la disposition historique des savoirs à l’âge de la répresentation» (p. 47), poiché lo specchio riflette ciò che è fuori dalla scena ma che, al contempo, viene catturato nella rappresentazione e ne costituisce il centro. Dal canto suo, Lacan, nel suo seminario del 1966, instaura un dialogo con la lettura foucaultiana dell’opera di Velázquez, ma punta l’attenzione non sullo specchio (considerato da Lacan un elemento accidentale), bensì sullo sguardo della bambina. È quest’ultimo, infatti, che ci rimanda ad un soggetto che sparisce completamente nell’oggetto, ossia, in questo caso, nella tela di cui vediamo rappresentato solo il retro: ciò è indice del vuoto di realtà del soggetto, al quale viene sovrapposto un fantasma o un oggetto immaginario, che non è invisibile, ma che deforma il vedere stesso. Anche in questo caso, dunque, è la deformazione della realtà che apre nuovi possibili spazi di soggettivazione nell’immanenza: il soggetto si dissolve, per Lacan, nel tragitto della pulsione, così come si dissolveva per Deleuze nell’essere e per Foucault nelle pratiche storiche incoscienti. Vi è in tutti e tre i casi una «conversion du regard» (p. 79), ossia una rinuncia alla trascendenza del soggetto, cui corrisponde una proiezione di quest’ultimo su una superficie immanente che, a causa della sua continua differenziazione interna, non fa che creparsi e piegarsi ogni volta di nuovo.

A questa operazione di dissoluzione del soggetto, Rambeau, come anticipato all’inizio, fa seguire anche un processo di radicalizzazione che apre nuove vie, questa volta politiche, di soggettivazione. Si tratta, in particolare, di guardare a quell’esplosione di nuove soggettività che costituisce propriamente l’eredità del Maggio 68 e che tanto Deleuze e Guattari quanto Foucault sembrano intenzionati a raccogliere. Gli autori di Mille Piani, in particolare, tentano di distinguere la soggettivazione, in quanto prodotto delle lotte politiche concrete, dall’assoggettamento, inteso invece come la produzione di soggetti che viene portata avanti da quella che i due filosofi francesi definiscono “l’assiomatica mondiale del capitalismo”. Quest’ultima, infatti, non solo è in grado di produrre nuovi soggetti conformi alle sue necessità politico-economiche, ma riesce a farlo anche sfruttando processi di deterritorializzazione, di decodificazione, di fuga, che la rendono capace di assorbire e riterritorializzare qualsiasi tentativo di resistenza. Deleuze e Guattari, perciò, tanto nell’analisi dei gruppi-soggetto che Guattari (sulla scia di Sartre) porta avanti, tanto nella proposta di una politica minoritaria che si trova in Mille Piani, si scontrano con le aporie della soggettivazione politica. L’unico modo, infatti, per pensare una soggettivazione che rompa definitivamente con l’assiomatica capitalista, e che non sia catturabile dall’apparato di Stato, è attraverso una macchina da guerra astratta, che non potrà distruggere l’istituzione statale, ma che sarà in grado di schizofrenizzarla dall’interno. Questa macchina, però, per non rischiare di essere riterritorializzata, non potrà che rimanere virtuale, ossia una macchina d’espressione priva di contenuto: è questo il senso del “popolo a venire” o del “popolo che manca” che Deleuze e Guattari invitano continuamente a pensare. In questo caso, non è più l’invenzione di una nuova soggettività ad essere la condizione per il ripensamento della politica, ma è piuttosto l’azione politica che diviene necessaria per l’invenzione etico-estetica di una soggettività a venire.

D’altra parte, anche in Foucault possiamo trovare il medesimo spostamento della problematizzazione politica verso un paradigma etico-estetico della soggettività. Come Rambeau mette bene in luce nel quarto capitolo, in Foucault non possiamo riscontrare une vera e propria teoria della soggettivazione politica: vi è piuttosto un pensiero del rapporto con sé declinato sotto forma di soggettivazione etica, che può giocare indirettamente anche un ruolo strategico in ambito politico. Ciò è ben visibile, secondo Rambeau, almeno in tre differenti ambiti cui il pensiero foucaultiano si dedica, ossia, innanzitutto, quello dell’ethos della critica e, in seguito due occasioni più contingenti, che coincidono con il lavoro del Groupe d’information sur les prisons, da un lato, e con le riflessioni sulla rivoluzione iraniana, dall’altro. Riguardo al primo ambito strategico, la critica per Foucault mette in relazione la soggettivazione, ossia il rapporto a sé, e la problematizzazione, intesa qui come il modo attraverso il quale si generano nuovi discorsi e nuove pratiche. La critica, perciò, tramite tale legame, può dar vita a nuove pratiche di veridizione irriducibili a quelle che ci sono imposte dal potere. La soggettivazione etica segna, dunque, in Foucault l’avvento non tanto di un popolo a venire, come in Deleuze, bensì piuttosto di un «sujet de la liberté» (p. 180), che implica, però, un ripensamento tanto del soggetto quanto della libertà. L’esperienza nel G.I.P., infatti, diverrà per Foucault occasione di rottura con quella che viene comunemente intesa come la libertà in ambito politico: nonostante il G.I.P., infatti, fosse riuscito a far passare la parola dei prigionieri, Foucault ne decreta il fallimento poiché le condizioni in cui questi ultimi vivevano non erano affatto cambiate. Al contrario, per Foucault, costruire una nuova soggettività significa rendere quest’ultima capace di modificare i dispositivi storici di sapere/potere in cui è inserita: dal momento che non vi è qui nessuna “nuda vita”, ma ciascuno è sempre inesorabilmente legato da relazioni di potere, la libertà non si darà nella forma di una completa liberazione dai dispositivi politici, quanto piuttosto nella capacità di trasformare questi ultimi. Si tratta, dunque, di portare avanti anche in ambito politico una conversione ontologica dello sguardo: Foucault sembra trovare un esempio di tale conversione nella rivoluzione iraniana, nella quale vede l’effettuazione di una politica spirituale, legata ad una lotta per la soggettivazione, ossia per la costituzione di un sé totalmente altro. Un tale sollevamento, secondo Foucault, non è affatto riducibile ad un mero atto di ribellione contro il potere dominante e non è pertanto giudicabile solamente a partire dall’esito empirico e politico della vicenda. Il sollevamento, infatti, a differenza della rivoluzione, non è solo una battaglia contro la verità del potere, ma anche l’affermazione di un potere di verità da parte del sé che intende costituirsi come una vita altra, ossia far nascere una nuova soggettivazione.

La radicalizzazione politica delle nuove soggettività si traduce, allora, in esercizi di disidentificazione, depossessione, defiliazione e destituzione del sé come soggetto, che sono necessari per il darsi di una vita etica, che non si vuole più morale. Si apre, così, l’ultima operazione che determina l’avvento delle nuove soggettività: quella che Rambeau chiama di biforcazione o deviazione e che segna le seconde vite non più ontologiche e politiche, bensì erotiche del soggetto. In questo caso, possiamo constatare una maggiore distanza tra la prospettiva foucaultiana e quella deleuziana e un iniziale avvicinamento di quest’ultima (quasi paradossale, visto che Deleuze è conosciuto, in quanto autore de L’anti-Edipo, come uno dei grandi critici della psicanalisi) a Freud e Lacan. In particolare, troviamo in Foucault un’etica del piacere riscontrabile anche nelle analisi degli ultimi corsi sulla sessualità antica intesa come aphrodisia, che si traduce in una soggettivazione, ancora una volta etica, che ha il proprio modello nei Cinici. Questi ultimi, infatti, caratterizzati dall’uso della parrhesia e del parlar franco, si fanno sostenitori di una vita secondo natura, che afferma l’animalità dell’uomo e che, proprio per questo, sembra in grado di porsi contro l’istituzione, inventando un nuovo modo di intendere e di praticare la verità. Secondo Foucault, i Cinici sono a tutti gli effetti dei filosofi e hanno il coraggio di incarnare la filosofia nella loro stessa vita, aprendo così la possibilità di nuove pratiche di sapere e di veridizione. Al contrario, per Deleuze, che legge i Cinici come esempio di umorismo, ossia di un renversement comico della logica, l’esito della loro pratica non è affatto quello di una vita filosofica, bensì di un mondo inabitabile, segnato dalla crudeltà, dall’incesto, dall’antropofagia. Questa distanza tra la lettura foucaultiana e quella deleuziana dei Cinici è indice del significativo scarto terminologico tra il piacere, di cui parla Foucault, da un lato, e il desiderio, cui si riferisce Deleuze, dall’altro. In Logica del senso, inoltre, vi è ancora una profonda influenza della teoria freudiana del motto di spirito e di quella lacaniana del fantasma, inteso come significante senza significato. Deleuze, perciò, recupera questi elementi psicanalitici al fine di pensare un desiderio incosciente, in grado, però, di produrre senso e di passare, perciò, dalla dimensione corporale della sessualità a quella incorporea del senso (il fantasma, dunque, in quanto immagine e raddoppiamento del corpo serve a riempire il vuoto tra queste due dimensioni).

Ma Deleuze, in seguito, sgancerà il suo desiderio incosciente da ogni somiglianza con la pulsione psicanalitica, nel momento in cui inizierà a pensare l’etica come una sintomatologia (non della malattia, ma del reale, poiché quest’ultimo – come si è visto all’inizio a proposito della dissoluzione ontologica del soggetto – ha subìto in Deleuze una deformazione patologica). Tale operazione si traduce in un’etologia, non esente da echi spinoziani, che mira a desoggettivare e desessualizzare il desiderio. Ne abbiamo un esempio nella lettura che Deleuze fa del masochismo, che Rambeau ricostruisce magistralmente come un elogio della perversione, intesa come esitazione, biforcazione, singolarizzazione di un nuovo modo di esistenza e di un nuovo stile di desiderio che è deviante rispetto alla norma. Questa deviazione si connota nel masochismo come una defiliazione, ossia uno svuotamento di significato del ruolo del padre (e qui è visibile tutta la distanza della lettura deleuziana da quella freudiana), a favore di una presa di importanza della figura femminile materna e crudele: si tratta di una desessualizzazione di Eros, cui segue una risessualizzazione di Thanatos. Il desiderio, allora, non è più investimento simbolico, bensì rappresentazione incosciente: è a partire da qui che Deleuze, in seguito all’incontro con Guattari, giudicherà la perversione come ancora troppo umana e radicalizzerà l’elemento inconscio e impersonale del desiderio nel celebre Corpo senza Organi di ispirazione artaudiana. Se il desiderio è pre-individuale, allora se ne dovrà costruire una fisica, prima ancora che un’etica, ed esso assumerà le sembianze di una macchina astratta, in grado di far scorrere i flussi e di provocare degli incontri anarchici o delle nozze contro-natura. Lo scopo dell’etologia deleuzo-guattariana è, dunque, quello di divenire-impersonali attraverso un desiderio incosciente e soprattutto senza soggetto; ma, nonostante Deleuze e Guattari critichino la psicanalisi per la sua lettura del desiderio come mancanza e negatività, ciò non significa che la loro prospettiva sia totalmente priva di ogni elemento negativo. Tutto al contrario, ogni divenire è irto di pericoli e ogni linea desiderante rischia di finire in un buco nero; per questa ragione, ossia per evitare il pericolo di una distruzione totale, Deleuze e Guattari non possono arrestarsi alla teorizzazione della dissoluzione del soggetto, ma hanno bisogno di introdurre anche una nuova soggettivazione che guidi questo divenire verso una fuga esente da auto-distruzione: come scrive Rambeau, «l’enjeu n’est pas d’être désubjectivé dans le désir, mais de [...] devenir sujet de sa propre désubjectivation» (p. 213).

È così che l’etica deleuziana sembra avanzare più di qualunque altra sul terreno di questa biforcazione, che sfocia nel paradosso di una «croyance au monde» ben visibile nei suoi testi sul cinema. Nuovi modi di soggettivazione, infatti, sono pensabili solo come ciò che non è ancora, ossia come esistenze a venire che dovrebbero produrre una controeffettuazione del reale. Non è qui, dunque, questione di sapere o di conoscere, proprio perché abbiamo di fronte solo dei virtuali; dobbiamo, piuttosto, imparare a credere: credere al mondo, all’evento, al nietzschiano lancio di dadi che segna l’avvento di un incontro singolare. Amor fati, coincidenza del caso e della necessità, una nuova logica delle relazioni: è da qui che dobbiamo partire se vogliamo imparare di nuovo a farci-soggetti, senza rimanere schiacciati sotto il giogo dell’assoggettamento. Le modalità di questo divenire rimangono ancora aperte, plurali, molteplici: è questo che l’autore de Les secondes vies du sujet, con una magistrale profondità concettuale, indica come il problema che la filosofia contemporanea ci ha lasciato oggi da pensare.

 

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