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Clara Mogno

Deleuze, Foucault e l'archivio come audiovisivo


Review of Gilles Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986)/1, Ombre Corte, Verona 2014 (269 p.)


Un anno dopo la scomparsa di Michel Foucault, Gilles Deleuze tenne, dall’ottobre al dicembre del 1985, a Vincennes, un corso sul filosofo di Poitiers, di cui recentemente Ombre Corte ha pubblicato la trascrizione e la traduzione. È dell’anno successivo invece il testo di Deleuze Foucault[1]. Non c’è da stupirsi quindi che i concetti che vengono elaborati in questi due contributi deleuziani siano simili tra loro: ciò che è restituito al lettore dalla trascrizione del corso è sicuramente il piacere di ascoltare, leggendo, le parole di Deleuze, le sue interruzioni, le domande e gli interventi degli studenti (spesso purtroppo incomprensibili nelle stesse registrazioni), e soprattutto il costante tentativo di essere chiaro. La presenza degli studenti porta infatti Deleuze a riprendere più volte il discorso, a rimarcare i passaggi con parole o con costruzioni diverse, con un’attenzione e una cura sempre presenti nei confronti dell’uditorio.

Come scrive Massimiliano Guareschi nell’Introduzione, Deleuze utilizza qui Foucault «come un filosofo, come il più recente dei classici»[2]. In tal senso, il ritratto che emerge da questo corso è perfettamente inseribile nella galleria filosofica costruita da Deleuze, insieme ai ritratti di Hume, Bergson, Kant, Nietzsche, Spinoza e Leibniz[3]. Fare storia della filosofia, per Deleuze, come si legge in Pourparlers, non è «ridire quello che dice un filosofo, ma dire ciò che egli necessariamente sottintendeva, il non detto che pure è presente in ciò che dice»[4]. È quindi per questo motivo che non si trova, in questo corso, né tantomeno nel testo dell’86, una guida al pensiero foucaultiano, ma piuttosto una sua rielaborazione originale, appunto, da parte di un filosofo, che facendo storia della filosofia inventa e ne verifica la solidità. Come Deleuze risponde a uno studente a tal proposito[5], ciò che gli interessa maggiormente non sono i déplacements foucaultiani, le rotture e le differenze tra le diverse opere, ma cercare di ricostruire il sistema-Foucault, e in particolare il problema teorico di fondo che caratterizza la produzione foucaultiana, appunto, il sottointeso di cui si legge in Pourparlers.

In questo corso, al quale ne seguirono altri due (dei quali è già prevista la pubblicazione per i tipi di Ombre Corte), Deleuze si concentra principalmente sulla coppia dicibile/visibile. Partendo dai testi forse più complessi della produzione foucaultiana – in particolare L’archeologia del sapere, Raymond Roussel e Questo non è una pipa, ma con riferimenti anche a Le parole e le cose, L’ordine del discorso e Che cos’è un autore? –, il filosofo cerca di definire la natura dell’enunciato. Attraverso questi scritti, Deleuze indaga quello che definisce il primo asse della filosofia foucaultiana, ovvero il sapere, il quale, insieme agli assi del potere e del desiderio, caratterizzano la spazialità e il sistema di coordinate del pensiero di Foucault.

Ciò che interessa analizzare a Deleuze non è tanto il sapere come insieme di conoscenze rispetto a un determinato oggetto, ma le condizioni stesse della conoscenza per Foucault. In questo senso, nella prima lezione, Deleuze tiene a specificare che Foucault non può essere definito come uno storico della mentalità: ciò che veramente interessa all’autore di Sorvegliare e punire sono invece le condizioni dei comportamenti storici e delle mentalità storiche, e non tanto i contenuti che si danno in una determinata epoca o periodo[6]. In questo modo, per una ricerca delle condizioni delle formazioni storiche, attraverso gli a priori storici della dicibilità e della visibilità, il Foucault di Deleuze emerge come un neokantiano molto particolare, caratterizzato da un materialismo radicale. Se, per Foucault, il sapere è «combinare il visibile e l’enunciabile»[7] e nulla preesiste al sapere, ovvero, non si può presupporre né un oggetto né un soggetto del sapere, non può esserci un’esperienza selvaggia o originaria à la Merleau-Ponty, semplicemente perché non si dà qualcosa che non sia già inserito in un “essere del linguaggio” (condizione del dicibile) o in un “c’è della luce” (condizione del visibile)[8]. In questo senso, dunque, «[i]l “c’è del linguaggio” non sarà mai separabile dalla modalità che esso assume in una determinata formazione storica»[9].

L’archeologia, definita come lo studio delle formazioni storiche, ovvero come lo studio degli strati (combinazioni di visibile ed enunciabile) ed estrazione degli enunciati, non raggiungerebbe per Foucault un “non più stratificato”, un oggetto naturale spogliato da tutti i possibili attributi storici. La possibilità per una critica che si vuole politica si apre qui, quindi, non come lo svelamento di segreti o verità nascosti: i dicibili e le visibilità non si celano mai, sono invece sempre evidenti e si danno immediatamente. Ciò che è necessario è saper essere in grado di identificare gli enunciati, irriducibili a frasi, parole o atti linguistici: bisogna saper leggere tra ciò che è detto e visibile, bisogna fendere il corpus concentrandosi sui focolai di potere attorno ai quali ciò che viene detto si organizza. Se il potere è strettamente immanente al sapere e rintracciabile nel “mormorio”, seguendo Deleuze, «criticare qui non significa affatto svelare il segreto, è un’operazione molto diversa. È svelare le regole a cui obbedisce un certo tipo di enunciato»[10], i suoi vettori e il suo essere eterogeneo. Quindi, per il non darsi di omogeneità nella molteplicità intrinseca degli enunciati, il Foucault di Deleuze è necessariamente lontano dallo strutturalismo: non si danno infatti costanti ma solo variabili, a partire dai diversi posizionamenti possibili del soggetto stesso.

La lettura foucaultiana di Kant viene definita da Deleuze come una «correzione moderna del kantismo»[11]. Se in Kant “a priori” e “storico” sono necessariamente in opposizione, per Foucault invece non si possono dare altrimenti. Si ha poi una sostituzione dell’“io penso” con il “si mormora”: non si dà nessuna forma di interiorità in quanto «ogni forma è una forma di esteriorità»[12], e il ruolo svolto dall’immaginazione e dal suo schematismo nella gnoseologia kantiana è assunto in Foucault, secondo Deleuze, dal potere, elemento informale per eccellenza.

Una volta definito l’archivio foucaultiano come un audiovisivo, il problema principale che agita le parole di Deleuze «riguarda sempre il fatto che ci troviamo di fronte a due forme irriducibili: la forma del visibile e la forma dell’enunciabile. Tra queste due forme non si dà isomorfismo»[13]. Il rapporto tra dicibile e visibile è un non-rapporto, in quanto le due forme non sono omogenee. Tra le due si instaurerebbe una cattura reciproca, una stretta da lottatori, un duello, e il primato spetterebbe al dicibile. Se non può esserci armonia tra visibilità ed enunciati, in quanto manca una corrispondenza tra forma e forma, altro non si può avere se non un intreccio sempre in tensione, garantito dai rapporti di forza e di potere – l’elemento informale, al quale, come abbiamo visto, Deleuze arriva attraverso il confronto con Kant. Il potere, come ribadito più volte in queste lezioni, sarà quindi centrale nel corso che segue a Il sapere.

Focalizzando l’attenzione sull’interesse di Foucault per il visibile, Deleuze rende conto di un aspetto importante del pensiero foucaultiano: la riflessione sulle immagini, di cui la recensione dell’edizione degli Studi di iconologia e di Architettura gotica e filosofia scolastica di Erwin Panofsky, firmata da pensatore di Poitiers nel 1967, potrebbe costituire un altro apporto, oltre ai testi individuati nel corso deleuziano[14].

Attraverso un continuo confronto del pensiero foucaultiano con il cinema e le arti visive e con diversi autori, tra i quali Kant, Descartes, Blanchot, Goethe, Heidegger, Benveniste e Proust, solo per citarne alcuni, Deleuze ci invita non tanto a riflettere su Foucault, ma con Foucault. La pubblicazione di questo corso offre al lettore la possibilità di rivivere l’esperienza che trent’anni fa fu proposta allo studente di quelle aule di Vincennes, ovvero l’occasione di partecipare e seguire i movimenti di un pensiero dalla rara agilità e intelligenza, un esemplare modo di fare filosofia che non si può ricondurre al semplice studio della sua storia.



[1] G. Deleuze, Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986; trad. It. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Cronopio, Napoli 2009.

[2] G. Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986)/1, Ombre Corte, Verona 2014, p. 13.

[3] Fu lo stesso Foucault, nell’Introduzione di Differenza e ripetizione, a sottolineare che il pensiero deleuziano è «[u]n pensiero non a venire, promesso dal punto più lontano dei riconoscimenti. È qui, nelle pagine di Deleuze, e salta, danza, al nostro cospetto, fra noi; pensiero genitale, intensivo, affermativo, a-categorico – aspetti tutti che non conosciamo, maschere che non avevamo mai visto, differenza che nulla lasciava prevedere e che tuttavia fa ritornare come maschere delle proprie maschere, Platone, Duns Scoto, Spinoza, Leibniz, Kant, tutti i filosofi. È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno» (G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; trad. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p. XXIV).

[4] G. Deleuze, Pourparlers, Les Éditions de Minuit, Paris 1990; trad. It. di S. Verdicchio, Pourparlers, Quodlibet, Macerata 2000, p. 181.

[5] G. Deleuze, Il sapere, cit., p. 66: «È vero che a me, personalmente, interessa più la coerenza di nuovi concetti che i problemi della sua evoluzione».

[6] Ivi, p. 23: «In altre parole, quando scrive di parlare e vedere, Foucault vuole superare una storia dei comportamenti e delle mentalità per innalzarsi a considerare le condizioni dei comportamenti storici e delle mentalità storiche»; e p. 33: «In altri termini, Foucault lavora come filosofo, e non come storico. Il vedere e il parlare determinano condizioni nella misura in cui: il vedere si supera verso il campo delle visibilità; il parlare si supera verso i regimi di enunciato».

[7] Ivi, p. 46.

[8] Ivi, p. 154: «Dico semplicemente che per Foucault nulla preesiste al sapere. Ciò significa che il sapere non presuppone né un oggetto preliminare né un soggetto preesistente. Perché? Per il fatto che il sapere è una congiunzione, una congiunzione di vedere e parlare. Ogni combinazione di vedere e parlare che segue le regole di formazione del visibile e dell’enunciabile costituisce un sapere».

[9] Ivi, p. 88.

[10] Ivi, p. 53.

[11] Ivi, p. 166.

[12] Ivi, p. 212.

[13] Ivi, p. 202.

[14] M. Foucault, Les mots et les images, in Le Nouvel Observateur, n. 154, 25 ottobre 1967, pp. 49-50.

 

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